Sherlock Holmes di Guy Ritchie, 2009

Con: Robert Downey Jr. (Sherlock Holmes), Jude Law (dott.Watson)

Di primo acchito, mentre ha inizio la martellante e tenebrosa colonna sonora, non è chiaro perché per il ruolo di Holmes sia stato scelto Robert Downey Jr. e non, per esempio, Sylvester Stallone. Infatti, sin dalla prima sequenza, Holmes e il fido dottor Watson, riconoscibili solo perché si apostrofano chiamandosi per nome, ammiccano tra loro come vecchi camerati, appostati dietro un pilastro medievale, in attesa d’intervenire durante una messinscena satanica, con tanto di fanciulla in bianco (discinta ma non troppo perché l’ambientazione è filologicamente collocata in epoca vittoriana e il nudo integrale non era di moda) fissata solidamente a un altare di pietra, in attesa d’esser sacrificata dal consueto satanasso in mantello e cappuccio nero, nel dispiegamento di acrobatiche riprese a montaggio rapido, che assommano tutti i possibili punti di vista sul fuoco dell’azione. Lo stile registico è quello usato negli odierni thriller hollywoodiani e nei programmi televisivi dagli autori di ‘documentari’ su veri o presunti ‘misteri’, preferibilmente templari o massonici (quando non entrano in ballo Nostradamus o gli alieni), celati nei più anodini reperti archeologici. Stile basato su zoomate e repentini sbandamenti della m. d. p. accompagnati da risucchi sonori, da improvvise esplosioni orchestrali, atti a confondere le idee allo spettatore, a distrarlo dai vuoti di sceneggiatura e regia, a impressionarlo non con la forza dell’immagine, ma con la brutalità dell’attacco a sorpresa. Questa è la veste della nuova avventura di Sherlock Holmes, immerso in una Londra fantasy-dickensiana, tra lacerti sconnessi del cinema inglese classico e frettolosi cenni pseudo-calligrafici ricavati dai dipinti dei magnifici e minuziosi pittori vittoriani (messe inesausta per la scenografia cinematografica).

L’ironia, costantemente sottesa alle vicende holmesiane, specialmente al cinema, è sostituita da battute pretenziose e gags fin troppo prevedibili.

Dopo alcuni opportuni preliminari per orientare lo spettatore e renderlo edotto dell’ambientazione e dei personaggi, inizia la prima di una sistematica e pedissequa serie di scazzottate in stile alquanto fantasioso tra i due protagonisti (aitanti giovanotti molto allenati in palestra) e una nutrita serie di avversari.

Quest’ultima incarnazione cinematografica dell’immortale detective sembra sigillare, con la parola ‘fine’, il suo mito: fine dell’intelligenza, fine della profondità. Sherlock Holmes di Guy Ritchie, enfatizzando elementi narrativi e caratteristiche marginali, non segna soltanto la morte ingloriosa di un mito letterario e cinematografico di grande raffinatezza e indiscutibile fascino, ma decreta altresì la fine di una cultura, di uno stile cinematografico squisitamente lineare, severo, impeccabile (si pensi a Vita privata di Sherlock Holmes, firmato dal grande Billy Wilder). Dai film in bianco e nero per la regia di Roy William Neill e Albert Werker con Basil Rathbone e Nigel Bruce fino alla bellissima serie televisiva britannica con Jeremy Brett per protagonista, la presenza di Holmes e Watson ha rappresentato uno straordinario intreccio fra minuziosa ricostruzione d’ambiente e intensità mimetica degli interpreti, in percorsi narrativi sottilmente enigmatici, carichi di intellettualità e gusto formale. La storia cinematografica del mito Holmes, fino a Guy Ritchie, si avvaleva abilmente di un senso dell’enigma suscitato dal contrasto fra i confortevoli interni dell’abitazione dei due amici e i brumosi esterni londinesi o le dimore nobiliari immerse in paesaggi selvaggi e verdeggianti; metteva in scena l’apparato fisiognomico e psicologico attraverso le sfumature d’atteggiamento, gli incontri e gli scontri caratteriali fra i due protagonisti e i loro clienti, portatori di angosce e presagi di morte. In questo tessuto narrativo (tanto letterario quanto cinematografico) articolato e ricco di dettagli, le scoperte scientifiche, dalla frenologia al magnetismo animale, dalla fisica alla chimica, giocavano un ruolo di irresisitibile magia, dando alimento alla suspense. Metodo inaugurato dallo stesso Conan Doyle che immergeva il razionalismo positivista delle indagini holmesiane nelle atmosfere inquietanti e sfuggenti proprie dello spiritismo. Qualcosa di simile farà Alfred Hitchcock, trasformando la psicanalisi e i misteri dell’inconscio in efficace meccanismo atto a suscitare l’attesa e la tensione in Io ti salverò, Marnie, Vertigo.

Nell’Holmes ‘storico’ non c’è mai narcisismo o autocompiacimento, non c’è alcuna indulgenza verso le oscurità della mente che inganna e uccide; non vengono fatte concessioni alla trivialità. La sua trascuratezza è quella degli scenziati e dei geni: disordine, affastellamento, non segreta propensione alla laidezza. Le sue febbri cerebrali, le famose sedute con le iniezioni di ‘soluzione al sette per cento’ sono consumate nel segreto della sua stanza, al di fuori di occhi indiscreti. Discrezione, ricordiamolo, è un’altra caratteristica fondamentale del mito Holmes. Forte di questo e dell’esperienza dei suoi illustri predecessori, Guy Ritchie riesce, così, a raggiungere un primato: tradire tutte le aspettative dell’appassionato di Conan Doyle; principalmente quella di ritrovare e riconoscere, sullo schermo, sulle pagine di un apocrifo, in una parodia, nonostante i cambiamenti e le metamorfosi, un vecchio amico che gli va incontro con una nuova avventura affascinante, sorprendente eppure inconfondibile nel suo disegno narrativo, nella fisionomia dei personaggi.

Immagine di scena del nuovo film "Sherlock Holmes"
Immagine di scena del nuovo film "Sherlock Holmes"

Nel film di Ritchie si dispiega, infatti, tutto ciò che Holmes non è e non è mai stato. Vi si ritrovano, per l’appunto, lerciume, autocompiacimento, esibizionismo, arroganza, supponenza accompagnate da una recitazione vacua e irritante affidata ad interpreti e personaggi francamente antipatici, a cominciare dai due cialtroni muscolosi che il regista pretende di far passare per Holmes e Watson, per finire con l’interprete della povera Irene Adler.

Qual è, ci si chiede, il senso di un’operazione come questa? Rinverdire un mito in declino? Approfittare di due nomi celebri per dar più colore a un banale film d’azione ‘all’americana’? Offrire a due interessanti attori come Downey (che età e dissolutezza hanno reso solido e intenso) e Jude Law (torbido e versatile) una chance inusuale? Mi sembra che ognuno di tali bersagli sia clamorosamente fallito.

Infatti, se dovessimo, in breve, riassumere la trama dell’ultimo omaggio cinematografico all’immortale detective britannico, potremmo dire che Holmes, improvvisamente accorciato di statura e dilatato in muscolatura, riesce a sconfiggere uno più pericolosi criminali del Regno Unito, ovvio esponente di una loggia massonica, grazie non tanto alle sue raffinate capacità deduttive e alla genialità di artista della detection, quanto all’abilità nel menar le mani e all’ottima capacità a reggersi in equilibrio sul vuoto, nonostante uno stato psichico in bilico sull’abisso.

Watson, del resto, non è meno irriconoscibile: è uno zerbinotto che cura i suoi baffetti con affettazione, così come l’eleganza del vestiario e sembra molto ringiovanito; nel ringiovanire ha mutato radicalmente carattere diventando arrogantello e piuttosto snob. Lo snobismo e la schizzinosità sono bilanciate dall’insopportabile disordine esistenziale in cui vive Holmes, abbigliato d’una veste da camera che non si immagina addosso nemmeno al più disperato dei mendicanti dickensiani.

Il saturnino e flemmatico detective riceve i suoi clienti in questo modo sorprendente: trascinandosi per terra fino a raggiungere quel che resta di una poltrona imbottita, nell’esuberanza del caos più inutile e inverosimile.

E poi… cherchez la femme! Poteva mancare Irene Adler? ma no, naturalmente. E com’è l’abilissima e splendida Adler, l’unica donna (a parte la straordinaria Gabrielle Valladon di Vita privata di Sherlock Holmes) in grado di giocare (con) Holmes? Una sciacquetta punk che si è infilata in un costume vittoriano troppo scollato, ovviamente rosso fuoco come il suo rossetto.

Addio Holmes. Addio dottor Watson!

Tornerò a trovarvi sulle vecchie, ingiallite pagine dei miei libri. Rivedrò, con un piacere sempre rinnovato, Basil Rathbone, Jeremy Brett, Robert Stephens… farò come se Sherlock Holmes di Guy Ritchie non fosse mai esistito. 

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