Armeggiando tra blog e siti in internet ho preso due piccioni con una fava: un blog interessante ed un autore altrettanto interessante. Ecco il blog http://omardimonopoli.blogspot.it/ ed ecco il libro, l’ultimo di una trilogia…

La legge di Fonzi di Omar Di Monopoli, ISBN 2010.

Storia del Sud, o meglio storia d’Italia che le differenze non si vedono più. Siamo a Monte Svevo nella Puglia, un paesino di quattro bicocche, un tempo terra di conquista della Sacra Corona Unita, ora di delinquentelli di vario stampo e di una cricca di potentati del paese che fanno capo al sindaco. Sta per ritornare dalla gattabuia  Nando Pentecoste, detto Manicomio, accusato (ingiustamente?) di omicidio che certamente la farà pagare a qualcuno e la sua non presenza aleggerà incombente ed inquietante per tutta la storia fino al suo esplosivo (alla lettera) arrivo.

Qui abbiamo tutto l’armamentario di una vicenda che ci induce a riflettere: ci sono i giovani delinquentelli, dicevo, alle prese con ruberie di ogni genere, soprattutto di macchine; c’è lo sfasciacarrozze che le prende in consegna e le rivende; c’è l’arrivo di Giovanni Pentecoste, detto Fonzi, il fratello minore di Manicomio che freme di vendetta; c’è la “cupola” dei signori del paese, l’ingegnere, il parroco, il sindaco tutti presi dalla preparazione dell’annuale Giostra Medievale e intrallazzati in un casino di rifiuti tossici; c’è la polizia legata in qualche modo al malaffare; c’è il bar “Sivori” con i personaggi tipici di ogni bar (mi ricorda quello del mio paese, il bar “Italia”) e ci sono diverse storie personali che si intrecciano fra loro.

C’è la rabbia, la miseria, la violenza, la brutalità, la schifezza, il cinismo, il momento di speranza e di passione, il desiderio di giustizia, il tocco che commuove, la lacrima che scorre, il paese intero con le sue sfaccettature, l’afa, il vento, l’aridità.

C’è qualcosa che si aspetta, che sta per accadere, l’arrivo di una specie di eroe, come nel più classico dei film western, che deve compiere la sua vendetta.

C’è, soprattutto, un linguaggio. Un linguaggio vero. Personale. In corsivo e in dialetto pugliese il racconto, lento e misurato, del nipote sulla storia dei due fratelli, il resto in italiano inframezzato sempre con il dialetto. Un linguaggio ricco, corposo, metaforico, talora pure arcaico e baroccheggiante, eppure allo stesso tempo libero e leggero, perché non fine a se stesso, perché non stupida ripetizione senza senso. Pronto con un tocco, con una battuta, con un accorpamento di suoni inaspettati a mettere in rilievo  un tratto particolare di un personaggio o uno sfondo corale del paese, pronto al guizzo ironico, ora bonario, ora tagliente, ora addirittura cattivo (fenomenale la figura ributtante di Skùppetta, lo sfasciacarrozze), e allo stesso tempo deciso a cambiare e a rinnovarsi, a operare nuove, continue, sorprese.

A me piace un linguaggio semplice che abbia a cuore, che rispetti le parole, l’ho già scritto e lo ripeto, ma qui il “più” non deriva da una sfrontato, ridicolo bullismo parolaio, da una strabordante goffaggine linguistica, ma da un amore, da una frequentazione assidua e perfino gelosa con le parole stesse.

Ne viene fuori un impasto ricco di inaspettate sfumature, di accenti strani e grotteschi, di guizzi nascosti e imprevedibili che lasciano sgomenti o tendono a solleticare il gusto del sorriso pur in un contesto degradato e deprimente. Insomma un tentativo, spesso riuscito, di portare qualcosa di originale in questa nostra benedetta e inimitabile lingua.

P.S.

Ad essere sincero avrei limato qualche parte e potato qualche parola, ma solo per gusto personale che il non detto, o meglio il suggerito, a volte, vale più di mille parole.

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