Amato dal pubblico e stimato dalla critica, Giulio Leoni è un indiscusso maestro del giallo storico italiano. Nel 2000 vince l’ambito premio Tedeschi per il giallo Mondadori con il romanzo: Dante Alighieri e i delitti della Medusa, iniziando la sua collaborazione con la casa editrice Mondadori e inaugurando la serie dedicata a Dante Alighieri. Leoni ci regala un ritratto insolito e intrigante del sommo vate italiano: uomo di lettere, ma anche intrepido uomo d’azione. La seguitissima serie consta di quattro romanzi in cui Dante dimostra di avere spiccate qualità investigative e di introspezione psicologica. Giulio Leoni è tra gli autori italiani più tradotti e conosciuti all’estero e la sua produzione è variegata: dai romanzi per ragazzi, ai gialli storici fino ad arrivare ai fantasy, che firma con lo pseudonimo J.P. Rylan. Attualmente insegna Teoria e tecniche della scrittura creativa presso l’Università Sapienza di Roma. È soprattutto il mondo dell’insolito e del non finito ad appassionarlo, così come scrive sul suo sito web: gli aspetti controversi della storia, le sue leggende, i suoi spettri. Quello spazio suggestivo tra la verità dei fatti e l'incertezza del possibile. Qui trova i personaggi di cui si innamora, e ai quali da vita nei romanzi. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a penetrare nel suo mondo, per comprendere i meccanismi che lo inducono a scrivere, sperando di carpire il segreto del suo successo

Partiamo dalla sua ultima fatica: La porta di Atlantide (Mondadori, 2011). Quali ragioni l'hanno spinta a rivisitare uno dei miti più affascinanti della storia?

Credo che ogni narratore, prima o poi, venga attratto dal desiderio di confrontarsi

con un mito, grande o piccolo che sia. È una specie di rito di passaggio: sul sentiero di ogni forma creativa, anche la più sperimentale e d’avanguardia, esistono dei passaggi obbligati, delle prove, che non si possono evitare. Come un compositore non può eludere di affrontare la sinfonia, o il più informale degli scultori il corpo umano, così nella narrativa esistono delle strutture archetipiche che “bisogna” in qualche modo tornare ancora una volta a raccontare. E poco importa che ci siano alle nostre spalle dei giganti che lo abbiano già fatto: anche la sinfonia ha avuto i suoi Beethoven e i suoi Mahler, ma non per questo anche il più ardito e dissonante dei musicisti contemporanei può esimersi dal tentare una sua via.

Nel mio caso, lo confesso subito, il mito che mi aspettava all'angolo è quello forse più classico, il mito di Atlantide. Soprattutto per una sua singolarità, che non mi sembra sia stata rilevata a pieno: nonostante le sue origini remote, quello di Atlantide è in realtà un mito moderno. Infatti anche se la storia è nota dai tempi di Platone, la sua fortuna si è consolidata solo nel corso degli ultimi cento anni o poco più: e questo grazie soprattutto all’opera di scrittori come Donnelly e madame Blavatsky, personaggi entrambi singolari e a loro modo davvero “atlantidei”. Questo particolare mi ha sempre incuriosito: finché la vicenda, sulla base dell’enorme prestigio del filosofo greco, è stata ritenuta “storia vera” secondo le sue parole, non ha interessato più di tanto. Una breve polemica di Aristotele sulla sua veridicità, qualche scarno riferimento nei mitografi alessandrini, e poi il suo utilizzo puramente strumentale nel Rinascimento per alcune utopie sociali o politiche, e nulla più. Invece, con l’esplodere della narrativa popolare, ecco che questa storia antichissima è tornata prepotentemente d’attualità, come se avesse atteso pazientemente l’arrivo della pop-culture per riemergere dalle acque del tempo.

Credo che ci sia un motivo più profondo, che si accompagna non casualmente al sorgere dell’età della crisi, e ai primi segni di declino della civiltà europea. Proprio negli anni in cui esplode l’entusiasmo per Atlantide si mettono a punto i gas asfissianti e le prime armi si sterminio di massa, e nel cuore stesso del continente si avvia la macchina che genererà di lì a poco i suoi mostri più terribili. È come se il sogno di una patria originaria, splendida e perduta, nascesse proprio quando la nostra patria reale, l’Europa, cominciava a suicidarsi. È questo che ho cercato di raccontare in La porta di Atlantide. Che non è assolutamente un romanzo su Atlantide, ma intorno ad Atlantide. Non avevo alcuna intenzione di immaginare l’ennesimo ritrovamento: a onta della copertina un po’ fantasy, chi si aspettasse di trovare nel romanzo manoscritti misteriosi, templi perduti nelle giungle amerindie, audaci archeologi-esploratori, vulcani sul punto di esplodere e magari anche qualche dinosauro sopravvissuto è destinato a restare deluso. Niente di tutto questo: quello che mi interessava era raccontare come il mito ha lavorato e lavora tuttora nell’animo di noi contemporanei. Con esiti grotteschi, quando a innamorarsene sono buff creduloni come i membri della società di ricerche atlantidee, o tragici come nel caso di Vanja, che si aggrappa alla leggenda con la forza della disperazione di chi, essendo stata privata di tutto, cerca in un altrove assoluto il riscatto dall’inferno personale che si trascina dentro.

Nel 2000 lei ha vinto il prestigioso Premio Tedeschi per il Giallo Mondadori con "Dante Alighieri e i delitti della Medusa" a cui hanno fatto seguito: "I delitti del mosaico", "I delitti della luce" e "La crociata delle tenebre", sempre con Dante Alighieri detective. Perché ha scelto proprio il sommo poeta come protagonista di alcuni dei suoi gialli storici? Come sceglie i suoi protagonisti?

I libri su Dante nascono anzitutto proprio dalla grande simpatia che ho sempre provato per lui. Parlare così del padre della nostra lingua e forse del più grande

poeta di tutti i tempi potrà sembrare irriverente, ma le mie intenzioni sono sempre state rispettosissime. Mi sono detto: ma se nel Trecento fosse avvenuto un delitto particolarmente efferato, per di più venato di oscure tracce diaboliche, chi meglio di lui sarebbe stato chiamato a risolverlo? Un uomo con una tale intuizione del comportamento umano e di tutti gli infiniti modi in cui si esplicita il male, al punto di averne fatto quello straordinario catalogo che è la Divina Commedia, una vera e propria Summa Criminalis dell’epoca.

Per di più un uomo lontanissimo dalla figura dell’intellettuale da tavolino: combattente a Campaldino e poi durante gli sfortunati tentativi di tornare in armi dall’esilio, politico abile e trascinatore, innamorato delle donne per tutta la vita. Ma anche pieno di debiti, portato alla beffa e finanche alla pornografia, se è vero che vanno a lui attribuiti il Fiore e la tenzone con Forese Donati. Perché perdere tempo a inventare un personaggio di fantasia ricco di audacia, intelligenza, cultura, coraggio, genialità smodata quando ce n'era uno già bello e pronto?

In questo senso quei romanzi sono pochissimo fantasy, non ho davvero inventato quasi nulla. Sono semmai operazioni congetturali, come direbbe Borges.

Oltre alla Firenze di Dante, vi sono altri sfondi storici interessanti nei suoi libri: per esempio il periodo della Seconda Guerra Mondiale. Come sceglie le epoche in cui ambientare i suoi romanzi?

Un giallo in fondo è un enigma, e trae giovamento da un contesto a sua volta enigmatico: d’istinto mi trovo sempre a orientarmi verso epoche confuse e contraddittorie (o almeno confuse e contraddittorie per me, perché a ben guardare forse ogni epoca in qualche misura lo è). In particolare mi intrigano i periodi di transizione e di declino di un sistema politico. Il Trecento con il collasso dell’Impero e della Chiesa, o il Novecento con il tramonto dell’Europa come dominatrice del mondo. Mi sembra che queste epoche si riflettano meglio di altre nella nostra, perché alla fine anche narrando del passato più remoto si finisce sempre per parlare di noi e dei nostri tempi.

Immagino che il lavoro di preparazione sia lungo e faticoso: biblioteche, internet, documenti. Come organizza il suo lavoro di ricerca e come lo concilia con la stesura vera e propria del romanzo?

Nei miei romanzi parto sempre da una domanda, e la risposta che immagino costituisce poi l’architrave della vicenda gialla o misteriosa. Per esempio, nel caso di I delitti della Medusa, la domanda era: perché Dante sottoscrive il bando d’esilio per Guido Cavalcanti, il “primo dei suoi amici”, l’uomo che da giovane lo aveva iniziato alla poesia ed era stato un punto di riferimento costante per molti anni? Cosa lo costrinse, e perché? O, nel caso de La donna sulla Luna, perché i nazisti appena saliti al potere fecero sparire ogni copia del film di Lang, una storia di fantascienza? O ancora, in La sequenza mirabile, perché si è persa traccia dell’unico sistema forse davvero efficace per vincere alla roulette? Immaginata una risposta, procedo a un attento processo di “falsificazione” (nel senso di Popper), ossia mi metto a caccia di ogni possibile elemento fattuale che possa smentire la mia ipotesi. E soltanto se non ne trovo, allora procedo alla stesura del romanzo. Le fonti sono quelle che lei indica, ma non bisogna immaginare anni di ricerche in archivi polverosi. Queste sono sciocchezze che qualche volta vengono scritte in copertina dagli uffici stampa per vendere qualche copia in più. Un romanzo storico, giallo o no, è anzitutto un romanzo, non un saggio di storia accademica. La sua forza si fonda sulla suggestione della vicenda narrata, sulla sua capacità di costruire un piccolo mondo virtuale che per la durata delle sue pagine si sostituisce nella mente del lettore a quello reale. Soltanto un ingenuo andrebbe a cercare la Storia in un romanzo storico.

Naturalmente poi ogni scrittore ha le sue piccole passioni, in cui magari si diverte anche a esagerare. La mia ad esempio è l’urbanistica, mi piace far muovere i miei personaggi il più possibile tra strade e edifici descritti com’erano davvero. Da qui un grande uso di mappe e carte antiche, spesso non facili da trovare. Per la Berlino degli anni Venti sono dovuto ricorrere all’aiuto di un’amica tedesca che per caso aveva conservato in famiglia una mappa ante bombardamenti.

Quali consigli darebbe a chi vuole scrivere gialli storici?

Per prima cosa chiedersi se si ha un reale “motivo” per scriverne uno. Voglio dire se si ha un effettivo interesse per un’epoca, una vicenda o semplicemente un personaggio del passato. Evitare insomma di scrivere un giallo contemporaneo in costume, come qualche volta avviene: gli scrittori italiani sono in genere più accorti e colti di tanti stranieri, e non arrivano a immaginare detective privati nell’antica Roma, o forze di polizia organizzate prima del ‘600, però il rischio è sempre dietro l’angolo. Se si hanno in mente CSI o il tenente Colombo allora è meglio dedicarsi alla contemporaneità, che non è certo priva di stimoli. Nel caso in cui si voglia davvero tentare, allora direi anzitutto di scegliere un’epoca della quale si abbia una buona conoscenza di base, e poi approfondire quegli elementi che ricorreranno nella narrazione. Cercando soprattutto di ricostruire quello che era il modo di pensare dell’epoca, più che gli abiti o l’arredo delle case. Avendo ben chiaro che usi, costumi, linguaggi del passato differiscono molto dai nostri. A cominciare dalla stessa idea di delitto, che prima della nascita dello stato moderno è considerato essenzialmente un fatto privato, un vulnus non alla collettività ma soltanto alla famiglia, alla corporazione o alla classe sociale della vittima, con tutte le conseguenze procedurali che questo comporta. E che in molti casi è lontano dal nostro modo di pensare: tanto per fare un esempio, a Firenze nel ‘300 l’omosessualità era punita con la morte, mentre l’omicidio per vendetta no, specie se compiuto in duello.

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