Una bellissima ripresa in DVD di un classico del 1972 che mi capitò di vedere alla fine di quel decennio alla gloriosa Cineteca San Marco, a due passi dal mio liceo. A dirla tutta, non avrei dovuto. Per poter frequentare la Cineteca bisognava aver compiuto 18 anni ma il mitico Alberti, intenditore non supponente di cinema a tutto tondo, chiudeva un occhio. Dopotutto la maggior parte dei frequentatori veniva proprio dal vicino Parini e, la tessera della Cineteca, diventava un simbolo di appartenenza a una sorta di club, indispensabile alla vita sociale quanto le libagioni al Tumbùn de San Marc.

Tre spettacoli al giorno, ci si arrivava in autobus e si potevano scegliere orari e programmi a seconda degli impegni. C’era un’altra interessante caratteristica della Cineteca che la rendeva ai miei occhi più appetibile di molti cineclub finto intellettuali dell’epoca. Alberti sceglieva sempre film di qualità, senza badare al genere o alla critica. Così ti capitava di vedere assieme ai film d’autore e ai capolavori del muto, storie avvincenti sfuggite magari alla grande programmazione ma che si sarebbero rivelate fondamentali per la mia formazione.

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In un ciclo sul cinema della paura rientrava appunto Chi giace nella culla della zia Ruth? (Who Slew Uncle Roo?) di Curtis Harrington con Shelly Winters. Mi ricordo che al momento il film mi impressionò parecchio e, a una recente visione dell’opera proposta da profondo Rosso, ho capito il perché con maggiore chiarezza. Si tratta di una moderna revisione della favola di Hansel e Gretel che, con la sua storia di streghe mangiabambini e il capovolgimento finale in cui i “piccoli cari” mettono al forno la megera ha di per sé una fascinazione possente. Qui tutto era allontanato dal clima fiabesco dell’originale. Una storia ambientata poco dopo la Grande Guerra, e retta fondamentalmente dalla presenza di Shelly Winters particolarmente in ruolo, personaggio in bilico tra malvagità, follia e una condizione di spirito patetica. In qualche modo responsabile della morte della figlia deceduta in un incidente e conservata mummificata in una stanza segreta di una grande villa, Ruth cerca disperatamente un contatto con l’aldilà. In questo è preda dei raggiri di un falso medium e dei suoi complici, una coppia di domestici trai quali emerge Walther Gothard che sarà in seguito un convincentissimo avversario di James Bond e già era entrato nella saga dei Moschettieri di Lester.

Questo però è solo un sottoplot, per la verità un po’ affrettato ma efficace per disegnare la psicologia della strega. Non un essere abbietto ma una donna tristemente sola, dolce come le forme opulente e i sorrisi infantili della sua interprete. Mal incoglie in una copia di fratellini orfani che si ritrovano con i loro compagni a festeggiare il natale ospiti della padrona di casa. Questa, per una serie di credibili combinazioni, riconosce, o meglio crede di riconoscere, nella bimba la figlia morta. Morbosamente scatta il meccanismo del rapimento e, visto che le vittime, alla fine sono trovatelli in un’epoca poco solidale con gli orfani, è facile farli sparire. Verosimile o meno, non importa.

La situazione si delinea spaventosa. Senza eccessi o esagerazioni ma con efficacia. Alcune prospettive, le inquadrature dei volti, degli oggetti, ricordo il magazzino dell’illusionista per esempio, hanno una tale potenza evocativa da creare un clima di tensione tale da superare qualsiasi squartamento e atto di violenza. Resta comunque il finale crudelissimo con la strega che abbiamo odiato sino a poche scene prima, condannata a bruciare mentre le vittime, bambini tra l’altro, eseguono il loro atto di “giustizia” e la fanno franca. Humour nero e suspense. Elementi che spesso emergono dalle fiabe (che al contrario della favole hanno protagonisti umani) nordiche suggeriscono e, con qualche adattamento, potrebbero perfettamente essere trasformate in storie di suspense. Per chi scrive sono sempre suggestioni di grande interesse. Non vi pare?

La trasfigurazione dell’abuso sui minori in chiave favolistica non inganni. Ci sono sequenze di questo film che, sebbene ogni allusione sessuale sia lontana, mettono davvero i brividi. Forse è anche un modo per mettere in scena orrori reali, filtrandoli sempre attraverso la lente della fantasia che non edulcora ma interpreta in chiave originale personaggi e situazioni. E non perde di efficacia. La violenza e la brutalità fine a se stesse, sbattute in faccia allo spettatore, evocano sempre la morbosità, il desiderio di compiacere una parte buia di noi stessi o di catturare l’attenzione alle spalle di vittime reali. In questo filone che definirei della “fiaba nera” invece la partita si gioca sul sottile confine tra realtà e fantasia. A volte credo sia la strada migliore.