Il fascino autoreferenziale dell’abominevole sposa.

L’abominevole sposa, variazione vittoriana dello Sherlock televisivo ambientato ai giorni nostri, si affaccia nelle nostre sale cinematografiche, in attesa della messa in onda, solo il 12 ed il 13 gennaio 2016. Film complesso e sfaccettato, cui non sembrano estranee ambizioni autoriali.

È strutturato su frequenti salti temporali, che ricollegano la rappresentazione vittoriana all’epoca contemporanea ed alle vicende della terza stagione di Sherlock, prefigurando quelle della quarta. Il che rende lo spettacolo principalmente adatto agli iniziati, al corrente degli sviluppi della serie e può creare qualche disorientamento in chi non l’abbia seguita fino ad ora. La giustificazione narrativa di tali, ripetuti cambi di registro temporali, è costituita dal fatto che lo Sherlock Holmes di oggi, reduce dell’ultimo episodio della terza serie, è intenzionato a chiarire il caso insoluto, appunto, dell’abominevole sposa, risalente alla fine dell’Ottocento e, per riuscirvi, tenta di immaginare come avrebbe potuto procedere nelle indagini se fosse vissuto all’epoca. Spunto evidentemente assai originale anche se, forse, i predetti cambi di registro narrativo, pur realizzati con evidente maestria, rischiano talvolta di compromettere l’organicità della vicenda e l’immedesimazione nei personaggi da parte degli spettatori. Il tutto, comunque, è arricchito da abbondanti dosi di ammiccante ironia, anch’essa, peraltro, pienamente comprensibile solo agli spettatori televisivi.

Il risultato è l’approdo ad una prospettiva puramente astratta e virtuale: lo Sherlock Holmes contemporaneo sogna lo Sherlock Holmes vittoriano che, a sua volta, sogna lo Sherlock Holmes contemporaneo.

Mi chiedo se il fatto che le attuali modalità di narrazione per immagini includano spesso accentuati artifici narrativi e visivi possa celare la difficoltà di molti autori contemporanei a raccontare una storia in modo semplice e lineare. Anni fa, lessi una riflessione di Roman Polanski, in risposta ad un critico che poneva a confronto la marcata stilizzazione dei primi film del regista polacco con la linearità narrativa delle opere successive. Polanski diceva, più o meno, che la semplicità di esposizione è una conquista della maturità, che essere semplici e lineari pone all’autore più difficoltà che ricorrere ad accentuati ed autocompiaciuti esibizionismi espressivi. Uscendo dal cinema, dopo la proiezione de L’abominevole sposa, ho sentito qualcuno dire che avrebbe preferito che il film fosse stato semplicemente un’avventura vittoriana di Sherlock Holmes di cui, in effetti, sembravano esservi tutti gli elementi.

Dunque, un brutto film? No di certo. Accanto quanto appena considerato, la produzione abbonda di pregi e di fascino. Innanzi tutto, gli interpreti: appropriatamente riconvertiti all’iconografia di fine Ottocento, dal dinamismo tecnologico delle produzioni precedenti, ritraggono i personaggi letterari aderendovi in buona parte, attualizzandone l’essenza e non limitandosi a riproporne le maschere. Il loro perenne, e spassoso, confronto dialettico resta vitale e credibile, senza scadere nell’automatismo. Lo Sherlock Holmes di Benedict Cumberbatch, pur non presentato in modo eroico e celebrativo, trasuda energica vitalità mentale, lasciando appena intravvedere, dietro le sue attitudini avventurose, la vulnerabilità di una persona profondamente sola. Il Watson di Martin Freeman è un amico leale ma dotato della solida praticità necessaria a non lasciarsi sopraffare dal genio eccentrico del suo compagno. In più, è qui insolitamente alle prese con qualche tensione domestica: le sue frequenti assenze per seguire Holmes nelle sue indagini suscitano il comprensibile disappunto della signora Watson. Questo motivo, che all’inizio sembra uno tema di contorno, finisce ben presto per rivelarsi la premessa da cui scaturirà il principale sviluppo della trama, la sua chiave interpretativa, ovvero l’inarrestabile profilarsi dell’emancipazione femminile. Fenomeno vissuto con disorientata perplessità – mirabilmente evocata nel film – da un contesto culturale e sociale non certo incline a riconoscere le prerogative esistenziali della donna, se non in una accezione riduttiva e stereotipata.

Tra i pregi del film, ritengo debba menzionarsi, poi, l’efficacia nella rievocazione della Londra vittoriana che, pur lontana dalla vitale visceralità ed dai sapori esoterici della città raffigurata nello Sherlock Holmes di Guy Ritchie (2009), rende l’ambientazione densa di suggestioni, richiamate con efficacia dai sofisticati chiaroscuri della fotografia, che suggeriscono un’illuminazione d’epoca, scelta stilistica che sembra talvolta rimandare alle immagini a lume di candela del Barry Lyndon di Stanley Kubrick.

Abbondano, nell’opera, i riferimenti eruditi alla saga letteraria e l’individuarli costituisce, per l’appassionato, un ulteriore motivo di divertimento. Convincente, inoltre, la rappresentazione visiva dei processi logico-inferenziali di Holmes, vero e proprio marchio di fabbrica della serie, qui appropriatamente rielaborati nello stile grafico tardo-ottocentesco.

Una menzione speciale mi sembra meritare, infine, l’immagine conclusiva. Con un ultimo salto temporale, Holmes si affaccia alla finestra del suo salotto vittoriano ed osserva la Baker Street di oggi, trafficata, caotica e rumorosa, il tutto rappresentato con rapida disinvoltura, in modo improvviso ed inatteso, senza compiacimenti: il semplice, palese, innegabile dato di fatto della perenne attualità di un personaggio che, come ha ben compreso il suo interprete, “ha la capacità di trasformare l’ordinario in un’avventura”.