Se morisse mio marito di Agatha Christie, Mondadori 2015.

Racconta il capitano Hastings, amico di Poirot. Sono in un teatro londinese dove furoreggia (come negli altri teatri) Carlotta Adams, americana di talento per le imitazioni fra cui quella di Jane Wilkinson (in realtà lady Edgware), attrice teatrale che assiste alla performance con accanto Bryan Martin, attore famosissimo.

Poi via a cena al Savoy. “Pizzicotti” tra i due amici riguardo all’agire e al pensare. Ed ecco all’improvviso lady Edgware chiedere uno strano aiuto “Signor Poirot, in un modo o nell’altro devo sbarazzarmi di mio marito”. Per sposare il ricchissimo duca di Merton (mica scema). Poirot ha il compito di convincere lord Edgware a concedere il divorzio. Non c’è problema, anche perché il suddetto non è affatto contrario (strano). E anche perché, sempre il suddetto, viene ucciso con una pugnalata al collo.

Per l’ispettore Japp l’assassino è la moglie, chiaro, lampante, lapalissiano. Ma non per Poirot, genio caparbio e acuto in perenne scontro, più o meno affettuoso con Hastings “cieco” e “ottuso” (invece), dotato di una perfetta “mente normale” in seguito anche più duro (e mi immagino la sua pazienza).

Aggiungo qualche particolare: altri due omicidi, oggetti per trucchi, una parrucca bionda, un “burla gigantesca”, una figlia che odia il padre defunto, uno scapestrato e indebitato nipote, una lettera a cui manca una pagina, un dente d’oro, il maggiordomo sparito, due testimoni che dichiarano di avere visto la stessa persona in luoghi diversi ecc…

Una storia che avviluppa e invischia lo stesso Poirot fino alla scoperta dell’idea “impossibile”. Allora tutto è chiaro e basta restare lì ad ascoltarlo a bocca aperta.

L’Agatha è sempre l’Agatha, ragazzi.