Non è un mestiere per uomini (I primi tre casi di Violet Strange)Anna Katharine Green, Marsilio, 2019, a cura di Alessandra Calanchi.

A chi, come me, bazzica il complesso e variegato mondo della detective fiction sarà capitato, magari di sfuggita, di sentire il nome Anna Katharine Green, anche se l’avrà sentito molto meno spesso di quanto non abbia sentito altri nomi più “illustri” e rinomati. Eppure questa gentildonna americana, nata a Brooklyn nel 1846 e morta a Buffalo nel 1935, è stata una prolifica giallista con all’attivo una settantina di opere pubblicate tra romanzi e racconti. Pen pale del filosofo Ralph Waldo Emerson, stimata da Agatha Christie e da Arthur Conan Doyle, il quale le volle stringere la mano durante un soggiorno a New York, baciata da un discreto successo commerciale ottenuto sin dall’opera prima, The Leavenworth Case (1878), che precede di nove anni l’esordio letterario del celeberrimo Sherlock Holmes e che è stato erroneamente ritenuto il primo romanzo poliziesco scritto da una donna d’oltreatlantico, primato che spetta invece a Seeley Regester (The Dead Letter, 1866).

Primati a parte, è curioso notare che, così come accaduto ad Arthur Conan Doyle, Green si avventurò nella detective fiction in seguito a un fallimento: non le era infatti riuscito di affermarsi come poetessa. Con un po’ di ardimento ci si potrebbe domandare se la sua delusione non fosse la stessa che Conan Doyle avrebbe provato qualche anno più tardi nel vedere il suo ambulatorio perennemente vuoto. Per quanto Green fosse talentuosa, però, all’epoca la detective fiction era un territorio squisitamente virile popolato da autori e investigatori di sesso maschile. Il tempo delle Agatha Christie e delle Dorothy Sayers doveva ancora venire. È bene ricordare che quando Green esordì, nel 1878, le donne statunitensi (e anche quelle di tanti altri paesi) non avevano nemmeno il diritto di voto, che sarebbe stato ottenuto solo nel 1920, ossia quando Green aveva già pubblicato le sue opere più importanti.

Anna Katharine Green
Anna Katharine Green

Non sorprende affatto, dunque, che The Leavenworth Case sollevò molti dubbi circa l’identità dell’autrice perché ritenuto un romanzo poliziesco troppo ben costruito e ben documentato da un punto di vista legale per essere opera di una donna. Molti supposero che Anna Katharine Green fosse una George Sand al contrario, un nome de plume dietro cui si celava una mente maschile. Ma il vero segreto di Green – che poi non era affatto un segreto – era quello di essere la figlia di un avvocato, donde tanta perizia in materia legale. Donna all’avanguardia, pioniera per certi versi, ma anche tradizionalista e conservatrice per altri: ce la potremmo facilmente immaginare alla testa di un movimento femminista, in mezzo alle suffragette, e invece no: Green si dichiarò sempre contraria al suffragio femminile. Tu quoque.

Oltre a The Leavenworth Case si possono citare altre due opere non meno rimarchevoli per struttura e caratterizzazione dei personaggi: The Circular Study (1900), che presenta diverse analogie con A Study in Scarlet (1887), e The House of the Whispering Pines (1910), una storia in cui si fondono il classico “delitto nella casa di campagna” e un intricato processo degno di un moderno legal thriller. I personaggi più celebri e serializzati di Green sono Ebenezer Gryce, ispettore del NYPD, Amelia Butterworth e Violet Strange, naturalmente. Quest’ultima farà il suo esordio nel 1915 e sembra essere il pendant ideale ai due “colleghi” che l’hanno preceduta: Ebenezer Gryce è un uomo di mezz’età, un professionista che fa parte di un corpo di polizia; Amelia Butterworth è un’argutissima vecchietta senza marito che indaga per diletto e anticipa certi tratti che diverranno poi peculiari nella più celebre Miss Marple di Agatha Christie. Violet Strange, da un punto di vista strettamente tecnico, non è una poliziotta e nemmeno una magnifica dilettante: è una semiprofessionista, essendo una giovanissima debutante dell’alta società newyorchese che collabora in incognito con un’agenzia investigativa privata.

In The Golden Slipper and Other Problems for Violet Strange la vediamo muoversi nella New York di inizio Novecento, dove le carrozze e gli omnibus convivono con le prime automobili, dove cominciano a svettare i primi grattacieli e dove, una quindicina d’anni dopo, cominceranno a muoversi e a indagare Philo Vance ed Ellery Queen. I casi, o “problems” di cui si occupa sono in tutto nove, ma Non è un mestiere per uomini ci propone i primi tre nell’impeccabile traduzione nuova di zecca di Alessandra Calanchi con testo originale a fronte. Non solo una sfida editoriale che vuole riportare in auge un personaggio caduto nel dimenticatoio, dunque, ma anche una sfida linguistica e traduttiva in cui non si può barare. Va detto che i nove casi-problemi-racconti sono “self-contained”, ossia narrazioni indipendenti che possono essere lette singolarmente e che hanno una loro conclusione; al tempo stesso, però, c’è un filo rosso che unisce i casi in un continuum narrativo e che si dipana dal primo racconto, The Golden Slipper, fino all’ultimo, Violet’s Own. Questo fil rouge riguarda l’esistenza privata di Violet e soprattutto il perché si sia scelta un’attività che “non è un mestiere per uomini”. Questo titolo è volutamente provocatorio e fa il verso a un personaggio di Robert Louis Stevenson in The Dynamiter (1885) che, in merito alla professione di detective, dice: “Per farla breve, è la sola professione che si addica a un gentiluomo”.

Ma chi è Violet Strange? Il lettore più attento e riflessivo si domanderà certamente perché una signorina benestante della buona società debba andarsi a complicare la vita lavorando in incognito per un private eye, una delle tante agenzie investigative alla Pinkerton “born in the USA”, un mondo maschile per eccellenza la cui violenta mascolinità verrà consacrata alcuni anni più tardi da Sam Spade e Philip Marlowe. E, last but not least, perché lavora in incognito?

Cominciamo a rispondere a queste domande, e cominciamo dal nome: Violet Strange. Nomen omen, si potrebbe dire. Strange, ossia “strana”: sì, in effetti Violet Strange è un tipo strano, bizzarro; non è una bellezza classica, anzi, la si direbbe piuttosto bruttina, ma è comunque capace di far girare la testa agli uomini; è moderna, emancipata, ma anche conservatrice e reazionaria, è stata a Parigi e ha preso lezioni di pianoforte come la gran parte delle ragazze di buona famiglia del suo tempo: e in questo assomiglia un po’ a Green. E poi Violet, ossia Violetta. Un nome alquanto evocativo per gli Holmesiani – mi riferisco ovviamente a Violet de Merville in The Illustrious Client, storia ambientata nel 1902 e quindi coeva alle avventure di Violet Strange – ma anche nome operistico: non si può non pensare a Violetta Valéry de La traviata di Verdi.

E, guarda caso, il mondo dell’opera lirica apre e chiude il ciclo dei casi-problemi per Violet Strange. In The Golden Slipper Violet è a teatro e sta assistendo a un’opera lirica. In Violet’s Own Violet ci svela il perché della sua professione: ha bisogno di soldi non per se stessa, ma per la sorella Theresa che deve realizzare il suo sogno di diventare una grande cantante lirica e per questo deve studiare con i migliori (e più costosi) maestri. Il padre, Peter Strange, uomo all’antica e molto in vista, non approva questa scelta e Theresa se n’è andata di casa. Ecco perché Violet offre i suoi servigi e il suo acume investigativo in incognito. Guai se il padre venisse a sapere – e naturalmente lo verrà a sapere nell’ultimo racconto – che la figlia è dedita a una professione così sordida che certo non si addice a una accomplished young lady dell’alta società newyorchese. Ludibrio e disonore. Possiamo azzardare che in questo Violet Strange ricorda vagamente un’altra celebre avventuriera americana: Irene Adler, nata in New Jersey ed ex primadonna dell’Opera di Varsavia, the woman, lei che fu capace di beffare il grande Sherlock Holmes.

È interessante notare come Violet Strange interagisce con i personaggi maschili della sua vita. Del padre molto all’antica abbiamo già detto. Ma ci sono altri uomini che per lei rivestono una certa importanza. Il fratello Arthur che sa della sua inusuale professione e le regge il gioco. Roger Upjohn, un giovanotto dell’alta società che troverà il coraggio di farsi avanti e le dichiarerà il suo amore, amore che verrà tradizionalmente coronato con un matrimonio. E infine l’anonimo datore di lavoro di Violet, il “boss” dell’agenzia investigativa con cui la ragazza si esibisce in scaramucce verbali inerenti i casi che vuole o non vuole accettare, a seconda dell’interesse che le suscitano e dei soldi che le faranno guadagnare. Violet Strange è una giovane donna che si muove in un mondo di uomini e fa un mestiere che non è per uomini. Già, perché questo sovvertimento dell’aforisma Stevensoniano? Perché l’attività investigativa di Violet non dovrebbe essere un mestiere per (gentil)uomini? La risposta ce la dà il private eye in persona all’inizio della prima avventura: “Ricapitolando, lei [un ipotetico cliente] viene da me e, quando le chiedo i fatti, scopro che sono coinvolte delle donne, anzi unicamente delle donne, e che queste donne non sono solo giovani, ma sono il fior fiore della società. È forse lavoro da uomini arrivare in fondo a una combinazione del genere? No. Serve qualcuna dello stesso sesso e, possibilmente, della stessa età. Per fortuna io conosco la persona giusta – una ragazza dotata e straordinariamente adatta allo scopo.”

I tre racconti tradotti, sui quali non mi dilungherò troppo per non svelare troppo, sono una ratificazione narrativa di quanto affermato dal “boss”. In La pantofolina dorata (The Golden Slipper) Violet risolve un caso di cleptomania tenendo un tranello alla colpevole, un tranello che funziona ed è insospettabile proprio perché teso da una donna. In Il secondo proiettile (The Second Bullet), il cui titolo evoca un capolavoro locked-room di John Dickson Carr (The Third Bullet, 1937), Violet è alle prese con un mistero balistico e, nel suo bel boudoir tappezzato di rosa, ottiene le confidenze di una donna coinvolta nel caso che si riveleranno fondamentali per la soluzione. In Un indizio intangibile (An Intangible Clue) la vittima è un’anziana signora che ricamava fazzoletti per signore e signorine; l’analisi di alcune macchie di sangue e la testimonianza di una donna si riveleranno di vitale importanza. In sostanza, in tutti e tre i casi Violet riesce a sbrogliare l’enigma non solo grazie al suo acume e alla sua capacità di osservazione, ma anche grazie al fatto di essere una donna che sa far breccia nel cuore delle donne e, fortunatamente, anche in quello di un uomo.