David Handler scrive il poliziesco L’uomo che voleva essere Francis Scott Fitzgerald nel 1991 con cui ha vinto Edgar Award e l’American Mistery Award, in Italia viene pubblicato nel 2002 dalla collana Giallo Mondadori.

È un romanzo poliziesco atipico in cui non compare come protagonista un detective o un investigatore privato, ma uno scrittore che si presta come ghost writer nel gergo dell’editoria ‘a fare il negro’ ovvero il lavoro di scrittura per altri.

È un lavoro oscuro e faticoso, infatti la firma del ‘negro’ sul romanzo finale non compare mai. Ne è protagosita l’ex scrittore di successo Stewart Hoag, ingaggiato per fare il ‘negro’ all’astro nascente della narrativa americana Cameron Noyes, in pratica gli deve scrivere il secondo romanzo. Dopo un primo romanzo di enorme successo, il giovane autore non riesce a ripetersi. Il nucleo centrale del romanzo è il famigerato blocco dello scrittore, da qui segue il plot di azione in cui ci sono resistenze e minaccie volte ad impedire che venga scritto questo secondo libro.

Questo mito del blocco nella scrittura nel romanziere che seduto alla macchina da scrivere fissa la pagina bianca, è appunto, più che altro, un mito americano. Ricorda molto il cagnetto Snoopy che tenta di scrivere la sua opera monumentale ma riesce a scrivere solo: “Era una notte buia e tempestosa” per poi bloccarsi.

Non che uno scrittore non abbia crisi e momenti più o meno felici, ma il blocco riguarda semmai chi fa lo scrittore non chi è scrittore, questa distizione non è questione di lana caprina.

‘Essere’ scrittore vuol dire esprimersi con la parola scritta, in ogni sua forma, è una condizione che riguarda l’essenza della persona e ha poco a che fare con l’editoria e i suoi tempi.

Montale ha pubblicato un libro di poesia ogni 12 anni, Tomasi di Lampedusa ha lavorato per anni al suo Gattopardo per poi morire senza vederlo pubblicato, uscirà postumo, ma tutti e due ‘sono’ scrittori e poeti. Chi invece ‘fa’ lo scrittore dipenede in tutto dalla pubblicazione, cioè dal suo status di espressione pubblica, è soggetto ai tempi commerciali dell’editoria, per cui non può permettersi di essere inutile, di non pordurre, il suo rapporto con la pagina bianca è angoscioso e frenetico.

Questa paura dell’inattività riguarda la società capitalistica (e soprattutto quella statunitense) basata sull’etica protestante del lavoro, sulla produzione infinita e non concepisce, e quindi teme, l’inattività, il blocco dello scrittore. Crisi, vuoto, nulla, pagina bianca, sono tutte metafore di uno stato che lo scrittore può indubbiamente attraversare, ma chi è scrittore non può non sapere che tutto ciò che gli capita e gli succede, partecipa e giustifica la sua opera, fosse anche un solo verso.

Il nucleo di questo romanzo, L’uomo che voleva essere Francis Scott Firzgerald, risulta legato al mondo dell’editoria consumistica degli Usa e alla sua particolare visione dello scrivere.

Non che il romanzo non sia godibile e la trama avvincente, capire man mano chi ha interesse nel fatto che questo libro non venga scritto, minacce e suicidi (presunti) sono il prologo che tiene in attesa della risoluzione. Emerge la descrizione di una società letteraria, un salotto delle lettere americano, un po’ manierato ma con qualche vertice interessante, qualche espressione felice che rende attraente la lettura.

Uno spunto o una riflessione interessante è la seguente: quanti romanzi di successo della nostra letteratura recente sono stati scritti da un ‘negro’, un ghost writer? Di sicuro c’è il fatto che alcuni bravi editor (redattori) hanno saputo creare il successo di uno scrittore.

Un dato altrettanto sicuro è che tra i banchi delle università, diversi ‘negri’ e ghost writer, hanno molto da fare a scrivere le altrui tesi di laurea, che bel romanzo sarebbe questa storia italiana