Intervista a Stefano Sciacca, che ci racconta come l’investigatore privato Michele Artusio, già protagonista e “autore” de L’ombra del passato (Mimesis 2020), torni a narrare in prima persona un episodio della propria vita. In questo caso, una vicenda giovanile da cui sarebbe dipesa la scelta di indossare la maschera che il lettore ha conosciuto nella precedente apparizione.

Il critico e cineasta Federico Pontiggia, nella sua prefazione, sottolinea precisamente che si tratta di «un ritorno al futuro in cui l’hardboiled sdilinquisce nell’esistenzialismo, la detection nella riflessione, il prossimo nel passato. Nel passato, sì, ma con l’inchiostro del presente, con la penna personale senza essere privata di Sciacca, che al genere chiede – e ha – conferma della propria autorialità».

Stefano, cominciamo dall'inizio. Qual è stata l'ispirazione che ti ha spinto a esplorare la giovinezza di Michele Artusio in questo prequel, pubblicato sempre da Mimesis edizioni nella collana Narrativa Meledoro?

Si è trattato dell’esigenza di chiarire due scelte che ne L’ombra del passato venivano imposte al lettore: quella di caratterizzare Michele Artusio secondo il cliché dell’investigatore hardboiled cinico, disilluso, scostante e solitario e quella di narrare gli eventi in prima persona. La sola ricchezza che conti spiega perché Artusio ha deciso di indossare la maschera distaccata che lo avrebbe in seguito contraddistinto, rivelando la ferita che egli ha cercato in tal modo di medicare. Inoltre, nel finale di questo secondo racconto, Artusio motiva la necessità di mettere per iscritto i ricordi del passato, considerando l’attività letteraria l’unica efficace maniera per rivivere la felicità ormai trascorsa ma mai dimenticata. In questo senso, ritengo che La sola ricchezza che conti costituisca un atto di amore nei confronti della scrittura e un riconoscimento del valore che essa può assumere nell’esistenza di uno scrittore.  

Attraverso le tue pagine ci porti negli anni '30, un'epoca con forti connotazioni storiche e sociali. Come hai affrontato la ricerca per rendere autentica questa ambientazione e quanto ha influenzato la trama?

La vicenda de La sola ricchezza che conti precede di qualche anno quella de L’ombra del passato: il fascismo è al potere, la guerra ancora deve scoppiare, a livello collettivo è percepibile una tensione prossima a deflagrare. Questa inquietudine veniva però mitigata dalla celebrazione del benessere voluta dal regime, come dimostra il cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi”, dietro l’apparente solarità del quale si nascondevano però una profondità e una sensibilità spesso misconosciute da parte della critica. Tuttavia nelle opere cinematografiche degli anni ’30 – che insieme ad alcuni documentari dell’Istituto Luce mi sono state di grande aiuto per cercare di ricostruire le abitudini di vita e l’atmosfera dell’epoca – io colgo il medesimo appassionato slancio verso la vita, la giovinezza, la felicità e l’amore che ho cercato di infondere ne La sola ricchezza che conti. Il romanzo trabocca appunto di speranza, anche se, nell’esistenza di Artusio come in quella di tutti gli altri italiani di allora, essa sarebbe stata presto turbata dagli sviluppi più drammatici.

Il tuo libro è descritto come un romanzo di formazione malinconico, poetico e romantico. Come hai bilanciato questi elementi con l’hardboiled?

Il finale restituisce effettivamente questa impressione e non me ne sorprendo: il genere hardboiled, al quale avevo inteso rendere omaggio attraverso L’ombra del passato, è infatti contraddistinto dal sentimento della malinconia e dal senso del fatalismo – legati alla profonda crisi politica, economica e sociale di inizio ‘900. Tali tratti avrebbero poi contagiato anche i capolavori del cinema nero hollywoodiano nell’immediato secondo dopoguerra, allorché all’inquietudine della generazione perduta e alle contraddizioni dell’Età del jazz si aggiunsero la tragedia dell’olocausto e quella della bomba atomica. Tuttavia il disincanto e la disillusione nei confronti del progresso e della modernità possiedono chiaramente ascendenza romantica e il Romanticismo dimostrò precisamente un interesse particolare per lo studio dell’interiorità, con le sue angosce profonde e la sua struggente poesia.   

Inoltre, hai accennato alla deformazione professionale sia dell'investigatore che dello scrittore. In che modo hai navigato tra l'indagine esterna e quella interna?

Il giovane Artusio, ne La sola ricchezza che conti, entra in contatto con una comunità di individui non comuni che condividono principi e ideali – su tutti quello della solidarietà – inattuali all’interno della società moderna, fondata viceversa sulla competizione senza quartiere, senza scrupoli e senza pietà. I nuovi amici, pur all’apparenza molto diversi tra loro e soprattutto da lui, accolgono il protagonista dopo averne considerato il carattere e apprezzato la personalità e lo stesso Artusio, contagiato dall’ambiente spirituale che lo circonda, comincia a interessarsi e ad appassionarsi persino alla natura umana, intraprendendo un’indagine interiore che procede di pari passo con l’investigazione vera e propria. Questa, del resto, diviene strumento imprescindibile a conoscere se stessi e gli altri e il protagonista finisce per convincersi delle analogie tra l’attività dell’investigatore e quella dello scrittore giacché, come sostiene il poeta Jacques, “scrivere è indagare […]. È sull’uomo che si indaga; è dell’uomo che si scrive”.

Ora che hai aggiunto un nuovo capitolo alla storia di Michele Artusio, hai in mente nuovi progetti o personaggi che desideri esplorare nel futuro?

Ritengo che Michele Artusio, al quale sono riconoscente per avermi imprestato la sua particolare prospettiva sulla natura umana, abbia ancora qualcosa da rivelare di sé e di me. Non escludo quindi di incontrarlo nuovamente tra le pagine di un nuovo racconto. A breve, poi, spero di pubblicare un romanzo intitolato Mephisto Walzer che affronta da molteplici angolazioni il concetto dell’ipocrisia – al centro delle mie ricerche sulla nozione del borghese.