Leggendo le memorie, sfiorando il medaglione, avvicinando la ciocca di capelli ai suoi, Marina crede di rivivere la stessa sorte, di essere quindi in qualche modo muta protagonista di una specie di passaggio del testimone ideale tra lei e la sua antica e sfortunata ava.

Ossessionata da questo pensiero fisso Marina si convince di essere la reincarnazione vivente di Donna Cecilia e di essere predestinata a subire lo stesso fato.

Quasi invasata e in preda a progressivi stati di allucinazione la Marchesa di Malombra perde definitivamente i contatti con la realtà quando conosce Corrado Silla, giovane studioso del quale si era già invaghita nel corso di un carteggio segreto, e di cui solo in un secondo tempo riconosce l’identità. 

Una volta appurato che è proprio lui il focoso amante intellettuale del quale si era infatuata per iscritto, dopo il primo entusiasmo iniziale, i loro rapporti si raffreddano notevolemente allorquando Marina, ingiustamente, lo sospetta essere, in qualche modo, figlio illegittimo dello zio Cesare, e dunque interessato a chiederla in matrimonio solo per rientrare in possesso del patrimonio di famiglia, e non per vero amore.

Tra equivoci e risentimenti la situazione si fa sempre più tesa fino a che Corrado, sconvolto dagli atteggiamenti deliranti di Marina, abbandona Como per Milano, dove crede di trovare conforto nell’affetto di una fanciulla molto più cauta, remissiva e religiosa, anche lei in certa misura legata agli interessi del Castello di Malombra.

Sconvolta dall’abbandono, Marina Crusnelli di Malombra perde definitivamente la ragione e attenta alla vita dello zio, apparendogli improvvisamente la notte in camera e fingendosi lo spettro vendicatore di donna Cecilia.

Colto da malore Cesare D’Ormengo versa in fin di vita e un telegramma, firmato Cecilia, richiama urgentemente Corrado al maniero.

Sarà però il preludio non di una benefica riconciliazione bensì il pretesto per aggravare ulteriormente la tensione, fino al drammatico epilogo finale. Marina uccide con un colpo di pistola a tradimento il suo amato bene, e poi fugge nelle acque tempestose del lago a bordo di una piccola imbarcazione a remi.

Da questo viaggio simbolico, sballottata tra i flutti delle sue passioni mai domate, travolta dalle onde del suo spirito confuso e tormentato, in preda alla bufera della sua possessione satanica inutilmente mascherata da insana follia, e infine annegata nella sua incapacità totale di adeguarsi alla vita, l’emblematica Marina di Malombra non farà mai più ritorno, lasciando il lettore perplesso sulla riva, intento a meditare sulle eterne problematiche della psiche umana.

Sintesi estrema del malessere  crescente dell’epoca Romantica, il romanzo rimane il capostipite di un filone letterario che non conosce tramonti in quanto analizza qualcosa che mai interamente potrà essere spiegato, a dispetto di tutti gli studi scientifici, parapsicologici, psichici, metafisici e religiosi che l’uomo potrà compiere.

Rimane da segnalare la caratterizzazione del personaggio di Corrado Silla, in cui molti hanno ritenuto di intravedere una sorta di autobiografia dello stesso autore. Considerato inetto ed incapace, perché  dedito agli studi letterari, ardente ma cauto, animato da nobili sentimenti in apparente contrasto con le modalità sociali vacue ed ipocrite che lo circondano, Silla è vittima dei suoi tempi, anche lui un predestinato solitario e malinconico, costretto a soccombere davanti alle intemperie della vita.

Antesignano, dunque, dell’eroe decadente e romantico e personaggio sorprendentemente attuale che sintetizza l’imminente crisi dell’individuo del Primo Novecento, schiacciato tra spiritualismo e materialismo, tra religione e positivismo, tra intelletto e realtà.

"Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri". 

 

Una menzione particolare va infine per le splendide qualità narrative di Fogazzaro che sa rendere, come fece anche Flaubert in Madame Bovary, il paesaggio e l’ambiente circostante veramente partecipi degli eventi, non già come spettatori, ma piuttosto come  attori o un comprimari.

 

In maniera tale che il lago, le montagne, la fitta vegetazione, siano non solo cupi testimoni del dramma di Malombra ma vi prendano attivamente parte, recitando il ruolo loro assegnato con fosca teatralità, così come accade del resto per la inquietante brughiera e il vento selvaggio in quel Cime Tempestose di Brontiana memoria.

L’unica piccola lacuna che si può imputare a questo autore è il signorile distacco con cui usa abitualmente ritrarre la fascia “bassa” della popolazione.  Nei romanzi di Fogazzaro, infatti,  forse proprio a causa della sua provenienza “aristocratica”, le fasce umili vengono descritte sempre con un evidente senso di disagio. Evidentemente lo scrittore non si sentiva su un terreno abbastanza solido, come invece poteva sentirsi il Verga, nel descrivere stati d’animo, usi e abitudini della servitù, dei contadini o del popolo, e quindi, istintivamente, ripiegava su una sorta di bonario umorismo, che ne stemperava i toni, e le conseguenti, inevitabili, implicazioni sociali.

 

Riecheggiando le tematiche che furono poi tipiche di Oscar Wilde e di Edith Warton, risulta particolarmente indovinata la satira delle vacue passioni umane, dei facili intrighi amorosi, dei languidi piaceri della società bene, e delle raffinate ipocrisie mondane dei salotti, che qui fungono solo da fondale per la vicenda, ma che comunque non mancano di fare di questo romanzo uno dei più riusciti affreschi sociali dell’epoca.

In alcuni passaggi di sublime lirica poi Fogazzaro, tanto per dimostrare ancora una volta la sua attualità, tende a richiamare alla memoria gli eroi solitari e disincantanti, amari e malinconici dei più moderni Italo Svevo e  Pirandello, dove non sarebbe difficile attribuire a un sempre più spaesato Zeno Cosini un brano di pessimistica considerazione come questo:

"La striscia nera della gente a piedi moveva lenta, assaporando l'ora dolce, l'aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena d'immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde, fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da questi acri vapori d'ammirazione, fiso l'occhio al di sopra di essi, in qualche invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra.”

Così, meditando sulla grottesca compattezza della folla di fronte al singolo, della umana, o disumana, capacità della massa di soffocare l’individuo e di renderlo ogni giorno di più simile allo sparuto simulacro di un essere umano, senza più volontà né pulsioni, privo di spirito e di autonomia, Fogazzaro si avvicina al nostro mondo, al disagio dell’uomo contemporaneo e alla crisi mistica dei valori che caratterizza il ventesimo secolo, riaffermando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che nei grandi classici si può sempre trovare adeguato riscontro e insospettabile attualità.