Intervista a Stefano Albè, che ci racconta di un noir psicologico ambientato nell’Iglesiente in cui la ricerca della verità diventa lo strumento di espiazione in un palcoscenico naturale selvaggio e aspro, dove i protagonisti si trovano e si perdono tra miniere abbandonate e dune disegnate dal vento.

Andiamo a scoprire la penna di questo sceneggiatore e autore televisivo, da oltre venticinque anni nel mondo della comunicazione come regista e progettista di eventi, affacciatosi ora sul panorama editoriale con il suo primo romanzo pubblicato da Arkadia, collana Eclypse.

Stefano, da quale evento si sviluppa l’intera trama?

C’è un elemento di rottura che spezza il ritmo lento e sospeso dei primi capitoli ed è il ritrovamento di un cadavere. Una morte che si presenta come accidentale, di un personaggio minore che entra ed esce di scena in un batter d’occhio. Un “non caso” che scoperchia il vaso di Pandora del fitto e articolato intreccio tra i personaggi che fino a quel momento si erano solo sfiorati. Riemergono i rimorsi del passato, prendono vita conflitti e amori, si cristallizzano incomprensioni e sensi di colpa. In un crescendo di ritmo e azione senza perdere di vista l’approfondimento psicologico dei personaggi.

La terra e la Terra che connotazione assumono nelle tue pagine?

La terra è l’elemento imprescindibile attorno al quale ruota tutto il corpus narrativo. E, come dici tu, assume nell’arco dei capitoli e rispetto ai diversi personaggi, un significato differente. La terra è salvezza per chi è naufrago ma è condanna per chi la scava a mani nude per tutta la vita. La Terra è nutrice e anima protettiva ma sa essere crudele e violenta. È mistero, sepolcro, la terra è roccia e sabbia ma la Terra è prima di tutto un patrimonio comune a tutti noi, da difendere ad ogni costo perché, come recita un antico detto, non l’abbiamo avuta in eredità dai nostri padri ma in prestito dai nostri figli.

Un racconto nato da un viaggio. Avresti potuto ambientare la storia anche altrove oppure non sarebbe stata la stessa?

Non questa storia. Quella parte di Sardegna che descrivo nel libro, l’Iglesiente, terra di miniere e minatori, è un luogo suggestivo, narrativamente potente, intriso di sangue e sudore. Ha dato vita a questa storia e potrebbe o potrà generarne altre mille. Ma non vale il discorso inverso, questa storia, questi personaggi sono figli del luogo, gli appartengono e in quei paesaggi, tra le dune e le gallerie, continueranno a vivere.  

Le passioni, le sconfitte e i trionfi. Come inserirli in un noir?

Credo di poter dire di aver fatto il lavoro inverso. Sono partito da un tema, da alcune vicende umane che desideravo mettere in scena. Ho poi trovato la scena, il luogo dell’agire, perfetto, calzante. Il noir come linguaggio, tutto sommato, è arrivato per ultimo, è stata una naturale conseguenza di quanto avevo pensato e studiato negli anni. È stato un lavoro sartoriale, tagliare e cucire il vestito noir da far indossare a un tema forte e ricco di suo. Quindi una vestizione più che un inserimento. E una vestizione molto naturale, spontanea, quasi imprescindibile.

Che ruolo assume il silenzio?

È fondamentale. Lo è nella mia vita e lo è anche nel racconto. Credo che il silenzio, soprattutto nella società e nella cultura dei nostri giorni, sia altamente sottovalutato. Io lo considero come il livello più profondo di comunicazione/relazione: con sé stessi, con gli altri, con l’ambiente che ci circonda. Col passato e con il futuro. Il silenzio è un luogo, il più trascendentale dei luoghi in cui viviamo e agiamo. Un luogo in cui perdersi e ritrovarsi. Nel romanzo il silenzio vive in diverse forme, dal mutismo di Gaia al non detto di alcune relazioni, dall’assenza di chi non c’è più al mistero delle viscere della terra. E poi, il silenzio è uno straordinario contenitore narrativo perché in esso ogni piccolo bisbiglio è amplificato, una fronda mossa dal vento crea inquietudine, lo scalpiccio in una strada buia e silenziosa è presagio di pericolo imminente, una risposta non data lascia l’ascoltatore in uno stato di sospesa incertezza.

In chiusura, cosa ti ha dato questo libro e cosa pensi possa dare a chi ti legge?

È stato per molti anni un compagno di vita, il mio rifugio di silenzio. Mi ha permesso di rappresentare un po’ dei miei fantasmi, delle mie paure e dei miei sogni e di farli vivere attraverso dei personaggi che ho amato molto e che spero suscitino il medesimo sentimento anche nei miei lettori. Vorrei che le vicende di Niccolò, Gaia, Antonio ed Enea, i loro sentimenti sinceri, profondi, potessero servire a ritrovare e magari comprendere meglio qualcosa di noi stessi. Infine, il mio augurio è che questo romanzo riesca ad accendere l’attenzione del lettore per una terra complessa, affascinante, fragile che merita rispetto e che ha bisogno di essere amata e tutelata.