Il ragazzo di colore, con le guance incavate e i vestiti rattoppati, saltava e si contorceva come un ballerino di professione, impegnato in un frenetico tip-tap al seguito del sassofono del suo anziano accompagnatore, un vecchio nero che ricordava Dizzy Gillespie con l’anima del grande Mulligan. Non suonava swing e neppure bebop, ma la sua musica aveva qualcosa di entrambi i generi e il sapore umido delle ballate di New Orleans.

La folla strisciava compatta sul marciapiede e aggirava l’ostacolo creando una sacca tra la facciata dell’Harper’s Rock Café e la catasta d’immondizia che delimitava l’angolo della strada: una bolla d’aria fatta dei suoni aggressivi del sassofono e del talento acerbo di un ballerino che aveva nel sangue millenni di danze tribali.

Kurt Hoffgauer restò qualche minuto a osservarlo, affascinato dalla velocità con cui tacco e punta sfioravano il selciato, battevano il ritmo, recuperavano l’equilibrio con un esercizio da circo equestre. Il sax strappava note languide e vistose al chiasso del traffico, e in qualche modo Hoffgauer sentì che gli penetravano nel sangue. Anni prima lui aveva cercato di diventare un suonatore di jazz, inseguendo il mito di Jelly Roll Morton e di Dave Brubeck, uno dei pochi bianchi con sangue nero nelle vene.

Una mano gli batté sulla spalla, riscuotendolo.

— Siamo in ritardo.

Hoffgauer si girò a guardare la smorfia stolida del suo accompagnatore. Un americano biondo prototipo del mito della California. Quell’idiota non sentiva la musica, non percepiva la grazia nei movimenti fluidi del ragazzo. Restò un momento a guardarlo negli occhi color brodaglia, poi annuì lentamente e infilò la mano in tasca. Ne cavò un rotolo di banconote da cinquanta dollari, ne sfilò una dal fermaglio d’oro e la lasciò cadere nel cappello del vecchio sassofonista.

— Che cazzo stai facendo? — chiese disgustato l’americano. — Le strade di Los Angeles sono piene di straccioni come questi. Se ti fermi a regalare cinquanta dollari a ognuno di loro, resterai al verde entro poche ore.

Hoffgauer si passò la lingua sui denti e lo guardò senza rispondere. Gli occhi verdi e le sopracciglia bionde facevano di ghiaccio quello sguardo sotteso dai muscoli duri delle mascelle. L’uomo si strinse nelle spalle e gli fece segno di seguirlo. Non capiva gli europei e se ne fotteva se volevano gettare al vento in quel modo i loro soldi.

— Muoviamoci — disse facendosi largo a spintoni nella folla. — Al capo non piace aspettare.

Attraversarono la strada in ebollizione e affrontarono il gigante addormentato di Pico Boulevard. Hoffgauer restò sbigottito a contemplare l’impossibile distesa di automobili incolonnata fino all’orizzonte.

Il marciapiede tremava leggermente, scosso dal respiro miasmatico di quel mostro acquattato sull’asfalto. Di tanto in tanto il lungo corpo metallico aveva una contrazione, lasciava sfuggire sbuffi di fumo nero nell’aria untuosa e si riassestava come se non avesse la forza per scagliarsi contro le geometrie rigide della città che l’imprigionavano.

Lo Chagalle L.A. Café era dall’altra parte della strada, nell’angolo di con­giunzione con Figueroa Street. Hoffgauer seguì il suo taciturno accompagnatore con un senso di malessere che gli attanagliava le viscere. Los Angeles sarebbe morta presto, soffocata da quell’aria irrespirabile che sapeva di fuliggine.

 

Ambiente stretto e fumoso di prima mattina, con i tavolini di marmo su cui erano accatastati i residui delle colazioni. Sulla fila di alti sgabelli davanti al bancone due puttane bevevano whisky e parlottavano ciondolando il capo.

Il barista li guardò entrare asciugando un bicchiere con il grembiule, annuì impercettibilmente e andò ad aprire una porta sul fondo del locale.

— Ehi, bello, è ancora presto per andare a dormire — gracchiò una delle puttane alzando il bicchiere verso Hoffgauer. Era giovane e scura di pelle, con la guancia destra spaccata in due da una brutta cicatrice. — Portami di sopra.

— Oggi è giorno di saldi — ridacchiò l’altra puttana mostrando i denti bian­chi e regolari. Aveva capelli color dell’oro. — Paghi uno e prendi due. Rientro anch’io nell’offerta.

— Lasciale perdere — commentò seccamente l’uomo che accompagnava Hoffgauer. — Ci stanno aspettando.

Passò attraverso la porticina facendogli segno di seguirlo, e Hoffgauer gli fu dietro dopo solo un momento di esitazione. Aveva guardato negli occhi le due puttane e vi aveva trovato tristezza e solitudine: eppure una delle due aveva fatto un gesto secco con la mano e aveva estratto dalla borsetta un walkman con le cuffie a bottoncino. Se le era infilate nelle orecchie e aveva cominciato a muo­versi a tempo con la musica che scaturiva da quella piccola scatola di plastica.

Un istante prima che lui scomparisse, la puttana si era girata a guardarlo, e aveva sorriso gonfiando l’orrenda cicatrice che le deturpava il viso.

Hoffgauer le aveva girato le spalle stringendo i denti.

 

— Willkommen — lo salutò una voce con pessimo accento tedesco. — Nehmen Sie Platz, bitte.

Hoffgauer fece scorrere lo sguardo nella saletta riservata. Il locale era grande una decina di metri quadrati ed era riempito da un enorme tavolo ro­tondo con una dozzina di sedie intorno. Hoffgauer immaginò la vita e la morte che si erano date battaglia su quel tavolo immerse in una schiuma compatta di fumo.

Le sedie erano tutte occupate tranne due. Senza esitazione prese posto ac­canto a una ragazza bionda con le gambe accavallate e la scollatura in evidenza. La luce cadeva da una lampadina legata al soffitto, e serviva a malapena a met­tere in risalto gli sfregi incisi al centro del tavolo.

Hoffgauer non riconobbe nessuna delle persone sedute in cerchio. La ra­gazza bionda era la sola donna presente, ed era anche l’unica che non mostrasse alcun interesse per lui.

— Problemi di fuso orario? — chiese la stessa voce che aveva parlato in te­desco. — Dev’essere stato un viaggio faticoso, da Leverkusen.

Hoffgauer strinse gli occhi nella penombra e annuì. L’uomo che l’aveva in­terpellato sedeva dall’altra parte del tavolo, e stringeva tra i denti un grosso si­garo: la punta incandescente tracciava ghirigori scarlatti a ogni movimento delle labbra.

— Capisci l’inglese?

— Naturalmente — fu la risposta di Hoffgauer.