Tutti i grandi investigatori della narrativa gialla sono stati da sempre obbligati a saper giocare a scacchi: sarebbe impossibile pensare che menti così logiche e deduttive non abbiano dimestichezza con il “nobil gioco”. Da Philo Vance a Nero Wolfe, ogni bravo investigatore che usi principalmente il cervello come strumento di indagine deve giocare a scacchi. Inoltre al contrario di altri giochi denota classe e buone maniere, e di solito gli investigatori sono persone agiate o comunque rispettabili: difficilmente li vedremo giocare ai giochi da osteria.

Tutti questi luoghi comuni si infrangono però contro un ostacolo particolarmente invalicabile: non sempre chi legge le avventure di questi investigatori sa giocare a scacchi, o anche solo ne conosce le regole basilari. Molto più facile che invece il lettore medio non ne abbia la minima conoscenza: come fare allora a descrivere un personaggio impegnato in qualcosa che il lettore potrebbe non capire? La soluzione è semplicissima ed è adottata da tutti gli autori di stampo classico: i loro personaggi dicono di giocare a scacchi, ma in realtà non lo fanno affatto. Qualche citazione fugace qui, qualche “scacco matto” là e il gioco è fatto. Sherlock Holmes non fa eccezione.

Il personaggio di sir Arthur Conan Doyle conosce gli scacchi, non ne abbiamo dubbi, gioco che è «indice di una mente programmatrice» - come afferma ne L’avventura del portabandiera in pensione, da Il taccuino di Sherlock Holmes - ma in realtà non lo vediamo mai seduto ad una scacchiera. Ci possono essere più o meno vaghi riferimenti e richiami all’universo scacchistico - come SherlockMagazine ha già raccontato: www.sherlockmagazine.it/notizie/3127 - ma nei testi del Canone la “scaccosità” è davvero ai minimi livelli, se non addirittura assente. Non che questo sia un difetto: è rarissimo trovare un collega di Holmes che vada più lontano di un qualche accenno.

Tutto cambia però quando altri autori prendono il mano il personaggio, non solo romanzieri ma anche sceneggiatori.

Uno dei più celebri adattamenti cinematografici del nostro eroe è Sherlock Holmes di fronte alla morte (S.H. Faces Death, 1943), diretto da Roy William Neill e interpretato da Basil Rathbone: un connubio artistico di regista e attore destinato a grande successo. La storia si basa su Il rituale dei Musgrave (da Le memorie di Sherlock Holmes) ma lo sceneggiatore Bertram Millhauser - autore di capolavori noir e anche di altre pellicole holmesiane - trova che il “rituale” da cui dovrà arrivare la soluzione dell’enigma sia poco convincente. «Un foglio spiegazzato, una vecchia chiave d’ottone, un paletto di legno con attaccato un gomitolo di corda, e tre vecchi dischi di metallo arrugginiti»: ecco, secondo Conan Doyle, il materiale che Holmes usa per giungere alla soluzione. Su grande schermo rende davvero male, così Millhauser ha una bella trovata: perché non rendere il rituale dei Musgrave un grande enigma scacchistico?

In una delle scene più belle del cinema holmesiano - ma anche di quello scacchistico - Holmes-Rathbone si rende conto che il sole che filtra da una finestra proietta sul pavimento di casa Musgrave «una gigantesca scacchiera»: il segreto degli omicidi dei Musgrave è nel pavimento, caro Watson, «e noi ne abbiamo la chiave!» (and by Jove, we’ve got the key to it)

Come il Dio borgesiano, che gioca a scacchi con gli uomini, Holmes si siede su un piano rialzato con davanti una bella scacchiera: alza il suo dito e ad ogni suo comando i personaggi della vicenda si vanno a disporre sul pavimento a scacchiera. Se qualcuno, come il dottor Sexton, non conosce le mosse del pezzo che rappresenta, verrà guidato sul pavimento... spostato esattamente come se fosse un’enorme pedina.