La prima volta che lessi La Pietra di Luna di Wilkie Collins fu al liceo. Me lo consigliò il mio professore di lettere che era (oltre che un critico letterario di fama nazionale che è inutile citare adesso) un appassionato di narrativa popolare oltre che di “letteratura”. Comprai il volume in una bella edizione economica e ne ricavai un grande piacere perché vi ritrovavo generi e temi differenti che un po’ avrebbero influenzato tutta la mia scrittura.

Non ricordo se ai tempi vidi lo sceneggiato TV diretto da Anton Giulio Majano e adattato da Fruttero & Lucentini che di Gialli & Misteri ne sapevano parecchio e riuscirono a inserire una serie di citazioni e spunti (assenti nel romanzo) per sottolineare il concetto che si tratti di uno dei primi veri polizieschi inglesi. Tesi tra l’altro sostenuta anche nel volume Il romanzo giallo di Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni edito negli anni ’70 come omaggio agli abbonati del Giallo Mondadori e veramente volume imperdibile in ogni biblioteca dell’appassionato.

Ho rivisto recentemente lo sceneggiato che, benché la qualità delle immagini non sia certo perfetta, mantiene ancora tutta la sua magia. E, a conferma del proposito degli autori di tracciare un fil rouge con la grande narrativa gialla, c’è una scena particolarmente emblematica. L’ispettore Cuff, sorta di antesignano dei grandi detective del filone, si aggira per villa Verinder all’indomani del furto dell’eponimo gioiello del titolo (The Moonstone) interrogando la servitù. Stupisce lo scorbutico giardiniere Biggs con alcune osservazioni su una particolare qualità di rose. L’uomo trova inconcepibile che un poliziotto si possa intendere di tali argomenti. E, dalla voce del maggiordomo Betteredge che funge da narratore sentiamo una frase emblematica. «E perché mai dovrebbe essere incompatibile l’interesse per i fiori con la professione del poliziotto? Dopotutto in futuro potrebbe esserci un detective appassionato di orchidee». Ovvio che Collins non poteva aver scritto una frase del genere, il riferimento a Nero Wolfe è sin troppo evidente e la strizzata d’occhio allo spettatore giallofilo sin troppo evidente. Da particolari come questo si capisce chiaramente quanto lo sceneggiato sia gradevole e interessante ancora oggi.

             

Wilkie Collins
Wilkie Collins
Alcune parole su Wilkie Collins prima di passare all’analisi dello sceneggiato. Collins fu narratore ottocentesco legato da un curioso rapporto di amicizia e rivalità con Charles Dickens che fu certamente più noto, lo aiutò e pubblicò anche i suoi racconti a puntate sulla sua rivista All the Year Round come era uso all’epoca prima dell’uscita in volume. Eppure tra i due autori ci fu sempre una rivalità in entrambi i sensi. Di Dickens, Collins un po’ invidiava la fama e la popolarità tra pubblico e critica. Di Collins, Dickens ammirava cercando d’imitare proprio la vena “poliziesca” ispirando il suo ispettore Witchen al Cuff del collega e provando anche la strada del poliziesco con The Bleak House e l’incompiuto The Mystery of E.D. se vi capita di leggere Drood di Dan Simmons troverete una fantasiosa (ma non troppo) disamina dei rapporti tra i due autori in un romanzo che in qualche modo completa l’opera lasciata a metà da Dickens.

Collins è noto oltre che per La Pietra di Luna anche per la Dama in bianco, un romanzo gotico con sfumature gialle basato sul diabolico piano di un lestofante che fa rinchiudere in manicomio la moglie scambiandola con una pazza che poi morirà lasciandogli un’ingente fortuna e sulla vendetta della legittima sposa che torna a reclamare giustizia. Una storia che, per temi e modi narrativi, quasi si allaccia al racconto di fantasmi. E qui veniamo al punto, la ragione per cui ci occuperemo di La Pietra di Luna, romanzo ben più articolato e formalmente riuscito.