Siamo nel 1947. Un anziano signore, malfermo e con un pacco sotto al braccio, scende difficoltosamente dal treno in una stazione della campagna inglese. Una donna, vedendolo passare, esclama emozionata: “è lui!” In effetti, l’uomo è Sherlock Holmes, il celebre investigatore le cui avventure hanno emozionato milioni di lettori e di spettatori, ormai ritiratosi dalla professione e stabilitosi in campagna, accudito da una governante e da suo figlio. Quel che resta, si potrebbe dunque dire, di Sherlock Holmes o meglio: il vero Sherlock Holmes al di là, appunto, della leggenda mediatica scaturita dagli scritti del suo biografo Watson.

Questa la peculiare ottica del film Mr. Holmes. Il mistero del caso irrisolto, tratto dal romanzo Un impercettibile trucco della mente di Mitch Cullin, sottolineata fin dalle prime battute. Il regista Bill Condon (Demoni e Dei, Kinsey, Dreamgirls, Il quinto potere) ha dichiarato in proposito: “Sarebbe molto divertente se il pubblico pensasse che Sherlock Holmes fosse realmente esistito”.[1] In effetti il film parte da questo assunto e si propone di recuperare l’uomo Holmes nascosto dietro la leggenda e lo ritrae – realisticamente ma con delicatezza e pudore – ormai anziano, malato e fragile. Viene, così, rimarcata la lontananza dai più vistosi stereotipi che, con il tempo, si sono sedimentati sulla sua immagine. Si veda, in proposito, l’arguta sequenza in cui il vero Holmes assiste, con divertito sarcasmo, ad un film che ricostruisce una sua indagine, piegandola alle esigenze della spettacolarizzazione cinematografica.

Qualcuno ha accolto sfavorevolmente la pellicola, ravvisandovi attitudini dissacranti. A titolo personale, ritengo che aver presentato un personaggio letterario come se fosse realmente esistito vale a riaffermare la profonda vitalità, l’inattaccabile solidità del suo mito e, allo stesso tempo, a renderlo più vicino a noi. Certo, questo film non ha molto a che vedere con le numerose pellicole che mettono in scena le esaltanti avventure del detective di Baker Street (chi scrive attende con impazienza, ad es., il più volte annunciato terzo episodio della saga diretta da Guy Ritchie). Qui, il Nostro è utilizzato come pretesto narrativo, come spunto per una riflessione – dolente ma non priva di retrogusto ironico, soprattutto grazie alla performance di Ian McKellen – su quanto la sola logica possa rivelarsi insufficiente nello scandaglio dell’insondabile mistero dell’animo umano.

Il mistero del film – di cui Holmes acquista gradualmente consapevolezza nel corso della vicenda – risiede, infatti, nell’indispensabilità dei sentimenti, in ciò che ci induce ad avere bisogno degli altri ed a protenderci istintivamente verso gli altri. Da qui, la necessità di comprendere le nostre e le altrui vulnerabilità, per non ferirci a vicenda e sostenerci l’un l’altro. La sola logica, sembra dire il film, non ci permette tutto questo, inducendoci piuttosto alla solitudine come riflesso della rinuncia ad esplorare ed a condividere le nostre attitudini sentimentali ed affettive che, proprio come la logica, costituiscono uno strumento di conoscenza.

In questo senso, la produzione letteraria di Watson, tesa ad arricchire le indagini del suo coinquilino con dettagli avventurosi, eroici e rassicuranti, sembra assolvere proprio all’esigenza di appagare la componente affettiva dei lettori, di offrire loro una prospettiva edificante e consolatoria di cui, altrimenti, un’indagine poliziesca – dai risvolti non di rado crudi e dolorosi – potrebbe apparire priva. Un gesto di amore e di pìetas nei confronti di una umanità esposta alla sofferenza e dunque bisognosa di speranza e di protezione. All’inizio del film, Holmes considera con fastidio l’attitudine di Watson all’invenzione e si dispone, con le difficoltà dell’incipiente malattia (si è appena recato in Giappone alla ricerca di un rimedio vegetale alla progressiva perdita di memoria che lo affligge), a ricostruire il suo ultimo caso proprio – afferma – per ristabilire la verità dei fatti, alterata dall’immaginazione del suo biografo.

Ciò che riesce infine a ricordare, e che all’epoca della vicenda rivisitata lo aveva indotto ad infliggersi la punizione dell’esilio, inizialmente lo sconvolge: la sua indisponibilità agli affetti aveva indotto la moglie di un suo cliente – profondamente sofferente e bisognosa di sostegno e comprensione – ad uccidersi. L’estremo turbamento che scaturisce da tale rinnovata consapevolezza (che nel film si associa efficacemente all’angoscia per la sorte del piccolo Roger, figlio della sua governante, in fin di vita perché attaccato da uno sciame di vespe) conduce Holmes ad un approdo edificante e persino pervaso di una timida, convalescente felicità: la coscienza, appunto, della stretta correlazione tra gli esseri umani e la conseguente necessità della cura e del sostegno reciproci, anche con gesti minimi ma significativi. Scrive dunque ad un suo corrispondente giapponese, costretto a convivere con la dolorosa consapevolezza di essere stato precocemente abbandonato da suo padre, inventando che questi si è distinto nella carriera diplomatica al servizio della Gran Bretagna. “La mia prima incursione nella letteratura di invenzione”, commenta quindi l’anziano detective, che ha compreso l’importanza dell’immaginazione e dei sentimenti.

La conclusione del film può indurre una qualche commozione: Holmes, riecheggiando un rituale osservato durante il suo viaggio in Giappone, dispone intorno a sé delle pietre, ciascuna delle quali rappresenta una delle persone con cui, durante la sua esistenza, ha vissuto significative relazioni. E riserva, così, un affettuoso, struggente ricordo a chi gli è stato vicino, a chi lo ha circondato, a chi si è preso cura di lui.

Il tutto espresso stilisticamente con toni lievi e cadenze meditative, lontani dall’artificiosa frenesia di tanto cinema contemporaneo. La regia, la recitazione, la fotografia ed il commento musicale raggiungono, in tal senso, una piena omogeneità. Il piccolo Milo Parker interagisce disinvoltamente con l’anziano McKellen ed è piacevole incontrare di nuovo – nei panni di uno Sherlock Holmes stereotipato, protagonista del film visto al cinema dal “vero” Holmes – il Nicholas Rowe di Piramide di Paura (1985).

Mi permetto di concludere con una brevissima notazione personale. È stato per me molto emozionante constatare che la pellicola contiene una delle più efficaci e puntuali rappresentazioni di un pedinamento mai viste al cinema. Per alcuni anni mi sono dedicato alle investigazioni private ed osservare Holmes impegnato a seguire la moglie del suo cliente con lucida e discreta circospezione, attento a registrare scrupolosamente ogni suo spostamento ed incontro, mi ha restituito il continuo stato di febbrile attenzione, l’estenuante autodisciplina, la consapevolezza del costante rischio di venire individuato, che fedelmente mi accompagnavano nell’espletamento dell’attività. Del resto, a quanto ho appreso, il padre di Bill Condon “era un detective di New York e i suoi racconti, che tanto lo affascinavano da ragazzino, devono aver certamente influenzato la decisione del regista di realizzare questo film”.[2] E conferito alla rappresentazione una autenticità ed una efficacia rare, anche da questo punto di vista.