L’Arte letteraria – perché di Arte si tratta, con la A maiuscola – dello scrivere apocrifi risiede nella capacità di saper mantenere un perfetto equilibrio mentre si cammina su quella fune sospesa nel vuoto che unisce il déjà-vu, ossia il vecchio mondo rassicurante delle avventure canoniche di Sherlock Holmes raccontate da John H. Watson e date alle stampe dall’agente letterario Arthur Conan Doyle, al mondo nuovo di trame e personaggi inediti creato dall’apocrifista. Se è vero che tutti gli autori di apocrifi elaborano un sostrato culturale comune – il Canone di Conan Doyle – è altrettanto vero che ciascuno di essi si differenzia dai colleghi perché elabora il Canone alla sua maniera infondendovi elementi di novità mutuati dagli interessi e dalle passioni particolari, che variano da autore ad autore. Se così non fosse, tutti gli apocrifi risulterebbero imitazioni pedisseque del Canone nonché l’uno il fac-simile dell’altro. Solo in questo modo si può giungere a un’opera originale prendendo spunto da un soggetto non originale: un buon autore di apocrifi sa riversare il suo mondo esclusivo in quello inclusivo di Holmes e Watson, o magari riversa il mondo di Holmes e Watson nel suo. Ecco, quest’operazione è riuscita più che bene a Gabriele Crescenzi con Sherlock Holmes e le impronte di Satana.

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Ma entriamo nel racconto che, secondo la terminologia criminologica odierna, si può configurare come un classico “cold case”, ovvero un caso a pista fredda: un crimine, un delitto o un fatto di sangue avvenuti in un passato più o meno lontano che sono rimasti irrisolti o per i quali si è convenzionalmente accettata una soluzione di comodo in mancanza d’altro. Nel caso di Sherlock Holmes e le impronte di Satana il cold case risale all’anno del Signore 1855, epoca in cui i due eroi di Baker Street erano ancora dei pargoli. Da allora sono trascorsi ben ventisei anni. Siamo dunque nel 1881, “pochi mesi dopo lo sconcertante delitto di Lauriston Gardens”, al secolo Holmesiano STUD. Lo scenario della tragedia è la cittadina di Exeter, nel Devon, contea che ovviamente rimanda alla maledizione dei Baskerville e al Mastino-Segugio in HOUN. Terra di leggende nere, il Devon, come quella del Cane Nero infernale che ha appunto ispirato HOUN a Conan Doyle. Ma attenzione: nel racconto di Gabriele Crescenzi questo scenario si deve a un’altra leggenda popolare extra-Canone, quella delle cosiddette “Impronte del Diavolo” del febbraio 1855: una serie di impronte a forma di zoccolo equino-caprino impresse nella neve che stando ai racconti della gente del posto – e di alcuni giornali – sarebbero state viste in vari punti attorno alla cittadina, suggerendo così una creatura demoniaca dotata del dono dell’ubiquità. Dunque una storia – vera o no – che fa parte della cronaca folkloristica.

Ma c’è di più: da questa storia lo scrittore anglo-neozelandese Norman Berrow ha tratto un romanzo giallo intitolato Le impronte di Satana (1950), al quale Gabriele Crescenzi si è a sua volta ispirato per creare la “sua” storia gialla. Ebbene sì: partendo da una leggenda nera popolare il giallista Norman Berrow ha costruito un “whodunnit”, ossia un giallo classico deduttivo. Il racconto di Gabriele Crescenzi dialoga dunque su più piani con un fatto di cronaca, il Canone di Conan Doyle e il romanzo giallo di Berrow. Va da sé che l’enigma proposto da Crescenzi differisce da quello di Berrow e ha una sua originalità, così come va da sé che nel romanzo di Berrow il detective non è Sherlock Holmes. L’altro aspetto insolito del racconto è che, pur con un attacco canonico, ossia i classici esercizi deduttivi fini a sé stessi (ma non troppo) con cui Holmes stupisce il Fidus Achates Watson – il critico e giallista Ronald Knox avrebbe definito “Prooimion” una simile ouverture – non c’è un cliente che si presenta in Baker Street per sottoporre un caso al celebre consulting detective. No, tutto parte dalla curiosità del dottor Watson, che ha letto un vecchio articolo sul Times e sa già che il suo amico e coinquilino non si rassegnerà alla spiegazione mitologica del fattaccio: un vecchio ed eccentrico signorotto di campagna è morto di crepacuore dopo aver visto nientemeno che il Demonio, il quale ha per l'appunto lasciato delle inspiegabili impronte sulla neve. Le cose saranno andate davvero così?

Qui comincia l’indagine “ai confini della realtà”. Uso quest’espressione da serie televisiva pensando alla definizione che Todorov dà del Fantastico: l’esitazione dei personaggi – e con essi del lettore – tra la spiegazione soprannaturale o quella razionale, l’eterna diatriba tra Mythos e Logos. Gli aficionados del Giallo classico ottocentesco e della prima metà del Novecento sapranno quanto il Soprannaturale possa essere sfruttato come specchietto per le allodole nella costruzione di un mistery bizzarro. Basti citare, oltre al già citato HOUN, La corte delle streghe (1937) di John Dickson Carr, ad esempio, autore con il quale Crescenzi ha una grandissima familiarità; non a caso il topos delle impronte inspiegabili su un manto di neve immacolato fa pensare a un episodio de Le tre bare (1935) e anche al racconto Un’impronta nel cielo dell’alter ego Carter Dickson (Colonnello March, Dipartimento Casi Bizzarri). Delitti “impossibili”, dunque, che però sono impossibili tra virgolette finché un brillante detective non svela come siano stati realmente possibili…

Sherlock Holmes intraprende quindi un’indagine senza alcuna rilevanza giuridica su fatti ormai caduti in prescrizione. Lo fa per tre motivi: 1) Non può deludere il suo amico e fervente ammiratore dottor Watson. 2) Il caso presenta quegli aspetti outré tanto cari che gli servono per sfuggire alla noia e alla famosa – o famigerata – soluzione al 7%. 3) Last but not least: dopo aver eliminato l’impossibile vuole arrivare a una verità certa, e deve, in termini extradiegetici, consegnare una verità al Lettore. Lettore, con la L maisucola, è una parola chiave anche per un altro motivo: il Metodo. Sherlock Holmes è tale e perfettamente riconoscibile perché ha un suo peculiare metodo logico-deduttivo-abduttivo. In questo racconto svolge la sua indagine – con la conseguente formulazione di deduzioni logiche – leggendo un vecchio rapporto redatto su un taccuino da un poliziotto locale ormai passato a miglior vita. Tutto ciò che gli serve per scoprire come sono andate realmente le cose sta scritto in quel rapporto, corredato da uno schizzo della scena criminis – e la mappa è un altro accessorio deluxe dei gialli Golden Age, presente, tra l’altro, anche nel romanzo di Berrow. Insomma, in questa storia Holmes è un detective-lettore, e ciò rappresenta la metafora della Detective Fiction stessa: ogni lettore di gialli è in fondo un detective in carne e ossa che sta all’autore come il detective letterario sta all’assassino.

Riuscirà dunque Holmes a dipanare un mistero vecchio di ventisei anni? Il colpevole verrà in qualche modo punito? Possibile – o impossibile – che sia davvero il “Principe dell’esilio”, così come viene poeticamente definito Satana da Baudelaire, citato a ragion veduta nel racconto? Non dimentichiamoci che Baudelaire ha tradotto in francese Edgar Allan Poe, il papà del Giallo, e proviamo a immaginare i “Fiori del Male” sotto un insolito punto di vista.

In conclusione, bella prova narrativa del giovane Gabriele Crescenzi, attinente al Canone, ma al tempo stesso fantasiosa e con una soluzione molto interessante.