Certamente Aldo Lado è tra i migliori registi sceneggiatori che hanno saputo trasferire il fascino segreto (e anche un po’ morboso) di Venezia nell’Italian Giallo

cinematografico. Chi l’ha vista morire? è uno dei film che ho recuperato tra i primi quando, all’inizio degli anni 2000, cominciai a studiare il “thrilling” italiano sistematicamente.

Essendo del 1973 quando uscì in sala ero ancora in quella fascia di età che raramente vedeva gialli e polizieschi italiani. Una questione di pregiudizio, in parte causata dai divieti ai minori ma anche un po’ dall’educazione familiare che permetteva più facilmente visioni di film americani che italiani. Errore, ripeto, ma all’epoca c’era, soprattutto nelle preoccupazioni degli educatori, l’idea che il prodotto nazionale fosse di exploitation, “estremo” e non adatto ai giovani. Le coltellate di Pyscho si potevano vedere perché erano di Hitchcock. Quanto fosse errata questa concezione lo scoprii dopo e, sinceramente, se confrontiamo la produzione di quegli anni con quella odierna... lasciamo perdere e torniamo a parlare di questo film che, sull’argomento “Venezia in Giallo” resta uno dei miei preferiti. Come intreccio, come personaggi e atmosfere.

         

Per quanto Il palazzo dalle cinque porte (Il Giallo Mondadori n. 3100, a febbraio in edicola) sia fondamentalmente una storia molto differente con suggestioni penso più vicine a storie come Il Segno del Comando è innegabile che alcuni passaggi tra i vicoli veneziani immersi nella nebbia e certi personaggi mi siano rimasti dentro. Come al solito lì, in gestazione, in attesa di riapparire con un ruolo totalmente differente. È il caso del personaggio di Sarafian, il mercante d’arte interpretato da Adolfo Celi. Nel mio romanzo c’è una figura che, nel mio cast ideale, gli assomiglia, Julius Zemanian, ma al di fuori delle origini armene e dell’immagine di Celi (che dal Sassaroli a Largo infesta il mio immaginario) è rimasto poco.

Torniamo a Chi l’ha vista morire? che si presenta già dalla filastrocca iniziale rielaborata da Ennio Morricone come un thrilling tipicamente di quegli anni. Qui però c’è un tono, una qualità persino nella canzoncina infantile che distacca immediatamente questo lavoro dalle opere di Argento. Dove follia e visionarietà si alleano nell’universo di Dario, il mondo evocato da Lado ha una stretta connotazione veneziana.

Una agghiacciante sequenza iniziale a Megéve, con infanticidio tra le nevi che poi servirà per introdurre il resto della vicenda, e ci troviamo direttamente a Venezia. Anche qui una giovane coppia in crisi come in Don’t Look Now. In questa occasione però il racconto è più sciolto, rapido, privo di intellettualismi formali e rimandi alla parapsicologia. Per dir la verità Franco Serpieri (un George Lazenby irriconoscibile dalla poco riuscita performance bondiana) e sua moglie Elizabeth (l’algidissima Anita Strindberg bellezza nordica fatta e rifatta ma presenza di peso nel giallo italiano dell’epoca) hanno già consumato la loro stagione amorosa. Restano sposati solo per il bene di Roberta (Nicoletta Elmi, rossa e dotata di una bellezza ambigua che ritroveremo in Profondo Rosso e Il medaglione insanguinato di Massimo Dallamano).

Lui è un artista, scultore di opere pop che conta di piazzare tramite il mercante Sarafian. Non ha molto a che fare con la corte di strani inquietanti e ambigui personaggi che circonda il mercante ma li frequenta, li conosce in una Venezia che, a dispetto dei palazzi che parlano di Storia, è definita da riti ordinari, da piccola comunità. Intuiamo subito però che intorno al mercante e alla sua congrega c’è qualcosa di morboso, strani convegni, sesso perverso. Ma tutto si stempera nella nebbia che, dopo alcune sequenze veneziane solari nell’incipit, prende possesso della città calando un velo di cattivi presagi. In effetti la strana donna con abiti fuori moda e la veletta che si aggira per calli e campielli e guata la rossa Roberta subito ci rimanda al delitto tra le nevi mostrato prima dei titoli di testa.

Un giornalista tenerone, una bella maliarda, un avvocato dall’aspetto ben poco affidabile, persino Alessandro Haber nei panni di padre James, religioso che si occupa della ricreazione dei fanciulli attraverso il basket fanno da contorno. Qualcosa nelle spensierate scorribande di Franco e Roberta per la città presagisce la tragedia. Franco aderente al ruolo di artista tormentato si strugge per l’indifferenza di Susan che ha preferito restare ad Amsterdam, ma non è insensibile al fascino femminile. È proprio durante una “scappatella” senza importanza con una fiamma locale, che lo scultore perde la bambina. Roberta svanisce, lascia dietro di sé una scia di indizi che non portano a nulla e riappare, ormai morta, uccisa ma non violata, tra i motoscafi del mercato sull’acqua poco tempo dopo.