“Intanto Bacci tornava verso il mulino. Si fermò davanti alla bottega, pensò alla Gina e subito dopo a Mario, che ancora non sapeva niente; salì i pochi gradini di lato al negozio con passo lento, incerto. Si fermò un momento in silenzio, si accorse che nel vicolo accanto una persiana si chiudeva, tirò la catenella della campana metallica e rimase in attesa. La voce di Mario gli giunse netta e squillante come lo scampanio:

-Chi è?-

-Sono Gianluca, Mario, posso entrare?-

-Ah, Ispettore! Vieni, entra pure…-

Bacci esitò per due lunghi secondi, poi s’introdusse in cucina chinando il capo. Avesse avuto un cappello in testa se lo sarebbe tolto e l’avrebbe tenuto tra le mani con imbarazzo, come aveva visto fare in certi vecchi film.”

Ogni buon romanzo è scandito da un ritmo tutto suo, una sonorità interiore che accompagna il fluire della narrazione, come in una sinfonia le parole si snodano al pari delle note attorno al fulcro centrale, sviluppando spirali ed evoluzioni che incantano e catturano.

Lo scrittore sa che la genesi di un libro scaturisce sempre da una rivelazione, un flash, un collegamento di idee, una suggestione particolare, o un personaggio avvincente. Tutto ruota attorno a un nucleo grezzo incandescente, che via via si evolve fino a diventare trama, da lì nascono poi la storia, l’ambientazione e i personaggi.

Ne La Maledizione dei Cerchiai di Gianni Brunacci il fulcro di ogni cosa non è un’idea fulminante, non è un protagonista eccezionale, e nemmeno un intreccio particolarmente ardito, qui la chiave di volta è un posto, un luogo, una percezione ambientale.

Si dà il caso che Raggiolo esista davvero e che i posti descritti corrispondano perfettamente ai luoghi, così come indicato con tanto di cartina, ma come tutti i luoghi “fantastici” della narrazione, in questo momento Raggiolo potrebbe essere irreale tanto quanto Macondo, perché questo luogo, ammantato dalla fantasia dello scrittore, respira di vita propria e potrebbe essere, a caso, un paesino qualsiasi di quelli dove andiamo in gita o in vacanza e che ci ammaliano con la loro quieta, immutabile e suggestiva malinconia.

Quando si penetra, da turisti o da villeggianti, una realtà locale, come quella di un piccolo centro abitato arroccato sulle montagne o rannicchiato in una vallata, si viene pervasi da una sensazione di meravigliosa scoperta, in contemplazione di qualcosa che si credeva perduto, smarrito o semplicemente dimenticato.

Dentro di noi si agitano misteriose sensazioni di appagamento, di magica indolenza, di doloroso stupore, il ritmo nuovo, scandito da abitudini antiche come il mondo, penetra sotto la nostra pelle come un toccasana benefico, e l’aria che respiriamo ci tonifica al punto da farci desiderare, spasmodicamente, che la vacanza non abbia mai fine e che noi si possa, almeno per una volta, non fare più ritorno.

Vorremmo restare lì, compenetrarci in quella realtà, dimenticare la nostra vita, ricostruire, riedificare, rinascere, rivivere e ripartire da capo. Ma molto spesso non si può, per quanto disperatamente lo si possa desiderare.

E non si può per due motivi, perché la gente di città ormai è irrimediabilmente compromessa e totalmente incapace, nella quasi totalità dei casi, di reintegrarsi in una realtà tanto diversa, e perché loro, gli abitanti del luogo, proprio non ci vogliono e se ne restano lì, a scrutarci da lontano come se fossimo delle bestie rare, forse anche pericolose, da tenere rigorosamente a distanza.

Per carità, va benissimo se andiamo a casa loro in ferie o in vacanza, ma guai ad avvicinarsi più di tanto, guai a tentare di integrarsi, guai a forzare la situazione cercando di compenetrare quel velo silenzioso di omertà e di alleanza che li lega. In quel momento i ruoli tornano ad essere tali, loro sono loro, noi siamo noi, e più diversi di così non potremmo essere.

Questa sottile suggestione rimane dunque tale proprio perché la magica dimensione che tanto agogniamo continua ad esserci negata, e del resto, secondo i ritmi diabolici dei nostri tempi, se anche così non fosse, forse alla fine sarebbe per noi comunque una delusione e presto quella magia, una volta svelata, non ci interesserebbe più.

Ecco che allora in questa storia, l’Ispettore Bacci manda moglie e figlia in vacanza al mare, in una località balneare sicuramente chiassosa e sovraffollata, e se ne va, da solo, a rintemprarsi in un piccolo paesino perso sulle pendici dei monti. Là tra le pietre antiche che parlano di tradizioni secolari, i vicoli, le piazzette e i fontanili, cerca di ritrovare la pace interiore in un appartamentino che è poco più di un buco, con un frigorifero sempre mezzo vuoto, e le antiche, sane e rigorose abitudini locali che giungono in suo soccorso. 

Adagiato nella routine pacifica della vita di tutti i giorni, senza orari e senza fretta, questo Ispettore di mezza età si aggira bonariamente tra gli abitanti del luogo, tra partite a carte all’osteria, passeggiatine post prandiali, soste all’emporio del paese, fumatine e fiaschi di vino.

Sembra un po’ un Maigret bonario ed indolente, che veleggia a caso lasciandosi trasportare dalla corrente, è già lì da un pezzo e ormai conosce tutti, o almeno si illude di conoscerli, quando inaspettatamente delle grida scuotono la sonnolenta tranquillità del piccolo borgo.

È il mutino, un ragazzo grande e grosso come una casa, un povero infelice che tutti coccolano e proteggono, forte come un bue, spaurito come un uccellino, che a segni e strattoni trascina il povero ispettore verso il fontanile del mulino, dove, adagiato nella vasca di pietra secolare, giace il corpo senza vita di Maria Pia, una delle poche ragazze rimaste nel paese, la figlia dei proprietari dell’emporio.

Ed ecco che il villeggiante ritorna Ispettore, chiama rinforzi, chiede un’ambulanza, esegue sopralluoghi sulla scena del crimine, cerca le tracce, scruta ansioso i volti dei paesani alla ricerca di un’indizio qualunque, di un sospetto, di un’indicazione, di un minimo aiuto che lo metta in condizione di capire, di soccorrere, di evitare il peggio.

Ma proprio allora scopre che quei compagni di avventura che credeva suoi amici, adesso si allontanano, si schierano compatti dall’altra parte della piazza, accostano gli scuri, lo spiano da dietro le finestre, gli chiudono le porte, gli negano fatti, informazioni e confidenze.

Non è mai stato uno di loro. Si era solo illuso, ora è di nuovo un “diverso”, uno di fuori, che non si sa cosa vuole, non si sa da che parte sta, non si sa per chi combatte.

Parte così una lotta impari, da una parte “loro”, la gente del paese, che sa e che nega, che mostra e nasconde, che copre e ripara, lacrime silenziose, rancori antichi che riaffiorano, rivalità occultate, legami atavici che si rinsaldano, dall’altra “lui”, l’Ispettore, l’esterno, il turista, l’autorità costituita, il nemico.

Eppure tassello dopo tassello, grazie a intuizioni, deduzioni, piccole informazioni, minime tracce, indiscrezioni e dubbi, l’Ispettore Bacci alla fine ce la fa. Dipana lentamente la matassa, ricostruisce le tracce, comprende le motivazioni, intuisce il disegno e si ritrova a muoversi, suo malgrado, in un labirinto imprevedibile, permeato di antiche leggende, moderne persuasioni, e debolezze umane vecchie quanto il mondo.

La realtà che ne emerge è sottilmente inquietante, le antiche maledizioni tornano, ancora una volta, a ricordarci che l’uomo è tuttora fragile, anzi forse di più, di quanto non lo fosse centinaia di anni fa.

Un romanzo intrigante, ben fatto, umanissimo e denso di personaggi magnificamente tratteggiati, sconvolgenti nella loro caducità, fieri e magnifici, eppure tanto deboli. Su tutto sovrasta, maestoso, il borgo arcaico di Raggiolo che con le sue pietre secolari mormora, come il ruscello del Mulino, una verità immutabile, antica quanto il mondo, che risale addirittura al Paradiso Terrestre e che l’uomo conosce assai bene, anche se troppo spesso finge di averla dimenticata.

La Maledizione dei Cerchiai di Gianni Brunacci

Edizioni Creativa

Collana Nuove voci

Pagine 196

Anno 2005