Il 21 maggio il corpo diplomatico occidentale presenta al governo di Pechino un ultimatum: o si procede all’immediata repressione del movimento clandestino oppure la Cina sarà invasa. Al contingente armato si aggiungono ulteriori rinforzi giapponesi, mentre sedici navi da guerra armate di tutto punto compiono una dimostrazione militare nel golfo del Chihli. Il 6 giugno gli alleati sbarcano a Taku un forte contingente di truppe e il 10 giugno il vice-ammiraglio inglese Seymour, parte alla volta di Pechino alla testa di un distaccamento di 2000 soldati armati di cannoni e mitragliatrici, ma è costretto a ripiegare su Tientsin per l’accanita resistenza dei Boxer; solo il 17 giugno le armate interventiste riescono a occupare il forte di Taku. Contadini in rivolta intanto appoggiano il movimento dei Boxer e ostacolano l’avanzata dell’esercito occidentale, le troppe tasse e gli anni di malgoverno da parte dei proprietari terrieri e delle autorità delle provincie hanno esasperato la popolazione, che appoggia l’insurrezione con la speranza di liberarsi in un sol colpo degli imperialisti occidentali, dello strapotere della dinastia Manciù e dell’antiquato sistema di vassallaggio feudale. Mentre la popolazione e i rivoltosi contrastano l’avanzata dell’esercito nemico, i reparti dei Boxer acquisiscono sempre maggior forza, debolmente contenuti dal fiacco reparto militare governativo. Presto ai vertici del potere si ha un ribaltamento politico e nell’estate del 1900 gli alti esponenti della dinastia Manciù optano per un voltafaccia improvviso e stabiliscono di appoggiare la rivolta dei Boxer, ufficializzandola, con l’intento di scacciare una volta per sempre gli scomodi invasori occidentali e ristabilire il proprio incontrastato dominio nel Paese. È l’imperatrice Tzu-Hsi ad inviare l’ordine segreto ai comandanti delle truppe e ai governatori delle province perché cessino immediatamente le operazioni contro i Boxer, volgendosi in armi contro le forze armate alleate. Il 21 giugno, forte dell’arrivo di un imponente distaccamento di truppe di ribelli alle porte di Pechino, l’imperatrice dichiara guerra alle potenze straniere facendo correre di provincia in provincia la disposizione di organizzare truppe di volontari e di costituire reparti speciali in grado di operare “per la difesa dalle offese straniere”. Timorosa comunque che la forza dei Boxer possa poi rivolgersi contro di lei, Tzu-Hsi dispone perché a questi sia vietato l’uso delle armi da fuoco, dissuadendo i rivoltosi dall’attaccare sia le sedi diplomatiche che le truppe interventiste. In questo modo l’obiettivo privilegiato dei ribelli diventano le aziende agricole, economiche e commerciali e le missioni religiose sparse in tutto il territorio.

Correnti interne sfavorevoli all’imperatrice auspicano intanto la vittoria delle truppe alleate e la caduta del governo Manciù, avviando in parallelo trattative segrete con il nemico per il ripristino di un ministero a impronta puramente tradizionale. Anche l’alta aristocrazia e la media borghesia disapprovano la presa di posizione di Tzu-Hsi e temono che l’avventata dichiarazione di guerra possa condurre il Paese alla rovina, liquidando l’insurrezione dei Boxer come un moto rivoltoso passeggero e di scarsa rilevanza, fomentato da contadini e artigiani facilmente riconducibili alla ragione. Intanto un’ulteriore associazione sotterranea, la “Società per la difesa dell’imperatore”, trama per ripristinare sul trono Kuang Hsü, il nipote dell’imperatrice, allontanato da lei, due anni prima, dal trono in quanto il giovane vuole modernizzare l’immenso Paese con l’aiuto delle potenze occidentali. Per questo, Tzu-Hsi lo dichiara folle e lo relega ad un ruolo puramente subalterno, anche se i rappresentanti dell’aristocrazia e della ricca borghesia auspicano un suo provvidenziale ritorno alla guida della Cina.

Temendo per le ambasciate straniere assediate a Pechino, le forze alleate inviano sempre nuovi contingenti e nel conflitto intervengono anche ulteriori rinforzi da parte dell’impero austro-ungarico, portando il contingente totale a una forza di oltre 40 mila uomini. L’esercito alleato marcia da Tientsin verso Pechino, radendo al suolo, depredando e bruciando tutto quello che trova lungo il suo cammino. Intere provincie vengono distrutte. Il 14 agosto la marcia trionfale si chiude con l’occupazione di Pechino, sottoposta a un imponente saccheggio e a un bombardamento senza sosta, che causa migliaia di vittime. Quando le truppe si ritirano, vittoriose, lasciano in Cina un contingente tedesco di 20 mila uomini al comando del feldmaresciallo Waldersee, che s’incarica di sedare la rivolta con feroci e sanguinose repressioni. Nonostante i reparti militari delle provincie ribelli siano già stati sconfitti e dispersi, il comando alleato continua la sua rappresaglia nei confronti della popolazione inerme, saccheggiando e depredando risorse naturali, generi alimentari e preziosi reperti dell’antica arte e cultura cinese. Intanto, al tavolo delle trattative, le varie potenze imperialiste intervenute nel conflitto, programmano di spartirsi le numerose provincie della Cina.