1929: Frederic Dannay e Manfred B. Lee, due cugini americani di origine polacca, entrambi ventiquattrenni, hanno appena pubblicato il loro primo poliziesco intitolato La poltrona n. 30, il cui protagonista è un atletico, colto, raffinato scrittore-criminologo con l'hobby dell'investigatore, Ellery Queen. Lo stesso pseudonimo con il quale i due autori firmeranno da allora i loro libri. «Nel 1928, già adulti [...] partecipammo ad un concorso per un romanzo poliziesco indetto da una rivista e da un editore di libri. Una clausola del concorso stabiliva che tutti i manoscritti fossero presentati sotto uno pseudonimo, e noi scegliemmo quello di Ellery Queen non solo come pseudonimo degli autori, ma anche come nome del detective protagonista». Ed è subito il successo, cosa non rara in quegli anni frenetici in cui nascono detective d'ogni tipo: dai duri alla Hammett (1923), sino ad incontrare l'aristocratico Philo Vance di S.S. Van Dine (1926). E in mezzo a questi personaggi appartenenti a tutte le classi sociali, inizia a trovare sempre maggiori consensi anche Ellery Queen che ha nel padre, l'ispettore Richard, la spalla ideale per le proprie indagini d'alta classe. Al genitore spetta in gran parte dei casi dare il via, nel bel mezzo di una indagine ufficiale, alle elucubrazioni del figlio. Raccogliendo prove ed indizi assieme al fidato sergente Velie, riesce a stuzzicare l'orgoglioso Ellery, che alla fine di un gravoso processo psicologico risolve felicemente il caso. Ma non è sempre così, come dimostra uno dei suoi romanzi più stimolanti Uno studio in nero (1966), in cui l'ormai famoso criminologo si trova, nientemeno, che a competere intellettualmente con il principe degli investigatori: Sherlock Holmes, a sua volta impegnato a risolvere il mistero di Jack lo Squartatore. Una storia nella storia, dove mai come stavolta Ellery Queen, basandosi soltanto su un manoscritto inedito del dottor Watson, deve impegnare a fondo tutte le proprie risorse basate sull'induzione, la logica e quel pizzico di cinismo che lo porteranno ad una possibile soluzione del caso. Eppure del duro dal cuore di pietra aveva ben poco nella vita quotidiana, ma quando inizia un'indagine non va tanto per il sottile. Persino il padre diventa per lui solo un poliziotto a cui spremere delle informazioni. La sua immagine di eterno ragazzo un po' timido, dettata anche dal suo aspetto, grazie ad un paio di occhiali pince nez e al fisico dinoccolato, nasconde in realtà una mente acuta e scientifica. Anche per Ellery usa fantasia e soprattutto parlantina, meglio ancora se intercalata da terminologie scientifiche, motti classici o filosofici: altri aspetti comuni a molti investigatori dell'epoca d'oro del "giallo". Da sempre contrario alle indagini di polizia - capace solo di raccogliere impronte e di controllare gli alibi -, è convinto di potersi immedesimare nei processi mentali dell'assassino. Abilità che in più di un'occasione lo aiuta a sciogliere i nodi di intricatissimi piani criminali come in Delitto alla rovescia (1934), in cui il cadavere ha tutti gli abiti rovesciati, così come lo è l'arredamento del luogo del delitto. La maggiore difficoltà sta, con i dati in possesso, nell'identificare chi fosse la vittima anche se alla fine Ellery riesce a risolvere il rebus. È sempre grazie alla propria inventiva che il romanziere viene a capo di innumerevoli misfatti, come in Il re è morto, una parabola incentrata sul potere, in cui si trova alle prese con il classico mistero di un omicidio in una camera chiusa. Ma come sempre, accade che una volta letta l'ultima pagina è sempre Ellery Queen a vincere la sfida, poiché pur disponendo di tutti gli elementi, manca sempre al lettore quel pizzico di fantasia con cui il protagonista esce vittorioso da situazioni intricatissime...