Intervista a Tiziana Prina per conoscere più da vicino un libro pubblicato per la prima volta in Italia grazie al sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca.

Andiamo a scoprire una nuova opera della letteratura gialla con la collana Oltreconfine della casa editrice Le Assassine. La nostra attenzione questa volta va a La casa al civico  di Nela Rywiková, storia ambientata in Repubblica Ceca, Paese ancora parzialmente scosso e influenzato, sia nei luoghi che nella mentalità dei cittadini, dal totalitarismo comunista, durato fino alla Rivoluzione di velluto (1989).

 

Tiziana, ci parli dell’autrice? Come ne sei venuta a conoscenza?

Nela Rywiková
Nela Rywiková

In una delle ultime fiere all’estero ho conosciuto Dana, che è agente letteraria nella Repubblica Ceca. Dato il mio interesse a trovare scrittrici di letteratura gialla che venissero da Paesi un po’ fuori dalle rotte tradizionali, e dato il mio interesse per storie che rivelassero un po’ del Paese di provenienza delle scrittrici, lei mi sembrava la persona giusta per avviare un’interessante conversazione su ciò che si scrive nel suo Paese. Tra i romanzi che mi ha proposto e che ho letto in sintesi, mi colpì questo di Nela Rywiková: era proprio quello che cercavo, o almeno così mi sembrava. Mi sono allora rivolta a Raffaella Belletti, che poi è anche l’ottima traduttrice del libro, per saperne di più e dal suo resoconto è partito il desiderio della traduzione italiana di Dum cislo 6, appunto la nostra Casa al civico 6. Va aggiunto che per la traduzione abbiamo anche ricevuto un sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca.

Riesci a fornirci maggiori dettagli circa la dimensione spazio/temporale all’interno della quale si svolgono le vicende?

La storia si svolge ai giorni nostri, ovvero dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989, che ha visto la caduta del regime comunista. Tra l’altro si chiama Rivoluzione di Velluto perché i manifestanti e gli scontenti dell’epoca ascoltavano la musica dei Velvet Underground. Comunque, la fine del regime, soprattutto per chi non era più bambino, non ha significato subito libertà e un riprendersi in mano la propria vita, perché l’ideologia comunista era stata così interiorizzata da impedire un adattamento al nuovo sistema. Molte persone sono state infatti incapaci di progettare qualcosa di diverso e di migliore e sono rimaste ferme a quando la fabbrica e il regime comunista dominavano le loro vite.  Vorrei far presente però che il romanzo non vuole essere una critica al regime, ma semplicemente mostrare le sue conseguenze sulle persone.  Il nuovo sistema, che chiameremo capitalistico, mostra infatti anch’esso i suoi lati negativi, soprattutto in chi non riesce a stare al passo con i tempi e alle diverse esigenze economiche che ne conseguono. Mi viene in mente a questo punto che in Germania si è formata tutta una letteratura che passa sotto il nome di Ostalgie – una sorta di crasi in tedesco tra est e nostalgia – e che potremmo in parole molto semplici riassumere con la frase “nella Germania Orientale si stava meglio quando si stava peggio”, perché con l’integrazione non perfettamente riuscita si era creato un rimpianto per quel tenore di vita basso ma garantito a tutti. E la stessa cosa succede in questo romanzo che si svolge a Ostrava, un tempo il cuore dell’industria pesante e delle fabbriche della Cecoslovacchia, ora quasi tutte chiuse, e con un tasso di disoccupazione tra i più alti del Paese.

Per quanto riguarda la dimensione spaziale, le vicende narrate ruotano tutte attorno a un palazzo malmesso, che è l’unico rimasto in piedi in mezzo alle fabbriche dismesse.  Proprio in quel palazzo sparisce Martin Prachal, e dopo un anno di vane ricerche e la mancanza di un movente, il caso sembra destinato all’archiviazione, se non fosse per un giovane poliziotto che si mette a indagare scoprendo che tutti gli inquilini del palazzo, per un motivo o per l’altro, hanno segreti da nascondere.

L’incipit del romanzo rimanda all’affresco dickensiano della Londra industriale dell’Ottocento, non trovi?

Direi che l’incipit mi ha subito molto colpito con la descrizione di Ostrava, che in epoca comunista era il cuore d’acciaio della Cecoslovacchia con le sue fabbriche e le sue miniere. Mi ha ricordato immediatamente la Londra di Oliver Twist, quando l’autrice scrive: “un luogo costantemente ricoperto dalla polvere di carbone che ne faceva una città grigia come grigi erano i pensieri di chi vi abitava…”.

La trama in realtà nasconde una metafora o una denuncia?

Direi entrambe le cose. La metafora è che a volte pur cadendo i vincoli esterni rimaniamo prigionieri del nostro passato, questo passato può essere il fatto di aver vissuto in un regime opprimente, ma potrebbero anche essere le esperienze personali che ci impediscono di vivere una nuova realtà senza lacci e lacciuoli. È anche una denuncia, perché come ho detto prima ci presenta comunque una società dove le ingiustizie sono ancora evidenti. In un certo senso l’autrice, che nel 1989 era una bambina, osserva con occhi distaccati l’incontro di due mondi.

A te che pubblichi autrici di tutto il modo, infine, vengono in mente parallelismi con altri Paesi?

Be’, nell’ambito dei libri che ho pubblicato mi vengono in mente due parallelismi. Uno si trova ne La sedia del custode, dove vediamo come un Islam radicale possa attraverso l’indottrinamento avere effetti devastanti sulle vite delle persone, e l’altro in Echi del silenzio che si svolge in Malesia. Pur essendo un Paese melting pot, dove si intrecciano diverse culture, il dominio coloniale inglese ha lasciato un profondo segno sulla popolazione, che per un lungo periodo non si è liberata dalla mentalità del colonizzato.