Domenica 5 dicembre, il Corriere della Sera ha offerto ai suoi lettori (non soltanto sherlockiani) una piacevole anticipazione letteraria. Nelle pagine contrassegnate come “domenicali” (oramai paiono obbligatorie, sui quotidiani che si copiano l’un l’altro), sotto una splendida fotografia di Basil Rathbone e Nigel Bruce, si poteva infatti leggere il testo integrale del contributo di John Le Carré al volume The New Annotated Sherlock Holmes, fresco di stampa dalla casa editrice W.W. Norton. Il grande scrittore inglese, autore tra gli altri di Chiamata per il morto, La spia che venne dal freddo, La talpa, Il sarto di Panama (e del poco noto Fine della corsa), ha dichiarato tutta la sua ammirazione e il suo debito d’autore nei confronti di Arthur Conan Doyle, che definisce senza mezzi termini «uno dei più grandi narratori che il mondo abbia avuto». Le Carré non parla di Doyle come di uno scrittore “di genere”, bensì di un narratore, un raccontatore di storie – qualità rara e incorruttibile, che garantisce a chi legge «una sorta di perfezione narrativa: una perfetta interazione di dialogo e descrizione, una perfetta caratterizzazione e sincronia. Non c’è da stupirsi, quindi, che a differenza di altri grandi narratori del diciannovesimo o dell’inizio del ventesimo secolo, Conan Doyle si traduca praticamente in ogni lingua senza che nulla vada perduto». Il segreto è nella lingua del medico-scrittore: una lingua superficialmente «modesta», uno stile piano, di «cortesia edoardiana», riflessa nel carattere e nell’indole del Dottor Watson, mediatore fondamentale del racconto. Lo stile è discreto, invisibile, al servizio della narrazione: proprio questa sapiente discrezione è però la qualità vincente, il registro adatto. «La modestia della lingua di Doyle - chiarisce Le Carré - nasconde una profonda tolleranza per la complessità umana. Anche ai suoi giorni, Conan Doyle aveva molti imitatori, tutti di gran lunga inferiori, per quanto di successo. Se uno di loro, per un caso terribile, avesse generato il perfido professor Moriarty, scommetto una sterlina contro un penny che l’avrebbe reso un astuto ebreo. Ma Conan Doyle non ricorreva a questi mezzi. Sapeva che il male può vivere di vita autonoma. Non aveva bisogno dell’odio né del pregiudizio, ed era abbastanza saggio da non affibiare etichette al Diavolo». «Senza Sherlock Holmes, avrei mai inventato George Smiley?», si chiede Le Carré. «E senza Watson, avrei mai dato a Smiley l’assistente Peter Guillam? Mi piacerebbe pensarlo, ma ne dubito». Con una stoccata doverosa ai critici di professione, alla loro miopia di cultori di una letteratura alta e canonica che fatica a includere Doyle (e magari Le Carré stesso...) nel novero degli scrittori puri e semplici, John Le Carré conclude con una frase che potrebbe risultare l’epigrafe perfetta per un sito come SherlockMagazine – e per qualsiasi comunicazione (scritta e non solo) ispirata dal mondo di Baker Street (da una telefonata a una monografia): «Nessuno scrive di Holmes e Watson senza amore».