L’AVVENTURA DELL’ENIGMA DA KRAKATOA

Chi ha avuto la pazienza di seguire dall’inizio queste mie cronache sa che, quando conobbi Sherlock Holmes, nell’intento di decifrare i modi singolari di quel giovanotto allampanato e saturnino, volli stilare un elenco dei suoi interessi; e che nulla quanto l’avere segnato un deciso zero alla voce letteratura valse poi a definire i limiti del mio senno. Perché colui che mi onoro di chiamare amico risultò essere invece uomo di vaste e inattese letture.

Ma questa resterebbe minuzia di biografo, non fosse che proprio dall’amore per i libri scaturì la strabiliante indagine che condusse Holmes alle soglie dell’infinito e spinse il suo fedele ma, nella circostanza, riluttante compagno a volgere in seguito molti sguardi smarriti al cielo.

Nel gennaio del 1896 ero tornato da circa un anno a Baker Street e, pur avendo ceduto lo studio di Kengsinton al dottor Verner, continuavo, col suo permesso, a seguire i pazienti che mi erano rimasti particolarmente affezionati. Non era una sinecura, si trattava di persone perlopiù cariche d’anni e d’acciacchi. In quei giorni, poi, afflitta Londra da un’epidemia di febbre, le richieste di visite si erano fatte incessanti e, lo confesso, persino sgradite. Perché anche in casa avevo un malato da seguire, Holmes, tormentato da una tosse persistente, stizzosa al punto da fargli moderare, su mia ferma prescrizione, inveterate abitudini d’accanito tabagista.

E in quella particolare, gelida sera d’inverno, deciso ad affrettare il ritorno, avevo persino preso la metropolitana, per emergerne frastornato e sudicio di polvere di carbone.

Finalmente a casa, già sorridevo, pensando ai sillogismi su luoghi e trasporti che il mio aspetto da spazzacamino avrebbe ispirato a Holmes, quando, appesi accanto al suo ulster, notai due cappotti di buon taglio.

– Abbiamo visite? – chiesi alla signora Hudson, mentre affidavo pastrano e bombetta alla sua spazzola.

– Sono appena saliti due signori… Anzi – aggiunse, dopo avermi squadrato con un’occhiata critica, – sarà meglio che dia una ripassata anche a lei.

E la santa donna, munitasi di un catino di acqua tiepida e di una salvietta, mi pulì faccia e mani con la brusca sollecitudine di una madre alle prese con un monello poco propenso alla pulizia.

Rimesso così a nuovo, salii nello studio, dove alla benefica fiamma del caminetto, sedevano Holmes e, sul divano, due uomini sulla trentina che non avrebbero potuto essere più diversi tra loro. Uno – moro, ricciuto, l’espressione altera marcata dalla barba rigogliosa – era in tutta evidenza uno straniero uso a cieli diversi da quello londinese; mentre il viso placido, i baffetti curati e il comodo abito di tweed attestavano invece l’essenza cockney dell’altro. Che, come Holmes gli ebbe detto: – Eccolo, finalmente, il suo Watson –, venne a stringermi la mano con inatteso calore.

– Dottor Watson, è un onore! – disse estasiato. – I suoi resoconti delle imprese del signor Holmes sono rari esempi di sapienza stilistica. E come sa padroneggiarne l’intreccio! Mi consideri il suo più grande ammiratore.

– Ne sono lieto – replicai, scrutandolo perplesso.

– Le presento il signor Herbert Wells – disse Holmes.

– Wells? Ma certo! Ho letto del suo exploit letterario.

– E il libro, vero e proprio, no? – chiese Wells.

– Be’…

– In questa casa può già contare su un seguace devoto – mi soccorse Holmes. – Deve sapere, Watson, che dopo aver letto il primo romanzo del signor Wells, La macchina del tempo, non ho potuto fare a meno di spedirgli un biglietto di complimenti. Di rado ho avuto tra le mani uno scritto altrettanto appassionante.

– Bene, procurerò di leggerlo al più presto. Di che tratta?

– Di un viaggio – rispose soddisfatto Wells – nel futuro più lontano che mente possa concepire.

– Sul serio? Be’, suppongo che uno spunto bizzarro possa ispirare una trama ricca di suggestioni...

– E di riflessioni sull’oggi – aggiunse Wells con una vena di puntiglio. – Perché la mia vocazione è, sì, attrarre il lettore con storie di assoluta originalità ma solo per aprirgli la mente e predisporlo a una nuova etica sociale.

– Un impegno lodevole… Non che basti spalmare zucchero su una coppa di fiele per renderla appetibile. Temo ci voglia ben altro per mutare l’ordine della società.