Da studentello più o meno sbarbato ero come una spugna. Assorbivo, pur facendo finta di sbattermene per non finire nella spregevole schiera dei secchioni, qualsiasi cosa dicessero i miei professori. Quelli in cui avevo fiducia, naturalmente. Alle superiori ce n’era uno che mi colpì con una specie di profezia rivelatasi, almeno nel mio caso, fondata. Egli asseriva, allora con  corale scetticismo e risatine varie che, andando avanti lungo il cammino della vita, il gusto dei lettori, in genere, cambia. Mentre in tenera età siamo presi dalla lettura nuda e cruda del testo infischiandocene di qualsiasi apparato critico poi, seppur lentamente, avviene quasi il contrario e le note, le introduzioni ed i commenti risaltano in primo piano. Questo mi è capitato più volte. Specialmente con i libri di storia, e soprattutto quando dovetti affrontare la mia tesi di laurea sulla vita economica di Siena nella seconda metà del cinquecento, relatore il “mitico” professore Giorgio Spini (autore di un fortunato manuale di

Raymond Chandler
Raymond Chandler
storia per le superiori) al quale mando un saluto verso il cielo dove so per certo essere stato accolto. Ultimamente la profezia si è di nuovo avverata. Sfogliando il bel libro Chandler-Romanzi e racconti 1933-1942 pubblicato dalla Mondadori nella splendida (e costosetta) collana de “I Meridiani” nel 2005, mi sono imbattuto nel saggio introduttivo di Stefano Tani e lì sono rimasto per un tempo all’incirca eguale (si fa per dire) a quello dedicato alla lettura dell’intero “corpus”. Segno inequivocabile che sto invecchiando o che sono già invecchiato. Almeno come lettore, secondo il noto vaticinio.

Intanto una parolina su Chandler, capostipite, insieme ad Hammett, della famosa “hard boyled” americana (Da non perdere il romanzo-biografia “”Hammett” di Joe Gores pubblicato dalla Einaudi). A dir la verità i primi gialli della scuola dei duri a stelle e strisce che ebbi tra le mani furono quelli di Brett Halliday con Michael Shayne che beveva Martell come una spugna e di Mickey Spillane con Mike Hammer che “martellava” di brutto. Non per  oculata scelta personale ma per puro caso.  Non avendo in tasca una lira che fosse una (desolata costante di tutta la mia “beata” gioventù) andavo talvolta dal giornalaio del mio paese Staggia Senese che teneva, oltre i giornali, anche riviste e gialli di varia natura. E qui la tentazione era più forte della paura del peccato e quello che veniva veniva. I malcapitati furono per le prime volte proprio Brett Halliday e Mickey Spillane. Poi con qualche “fioretto”, come allora erano chiamate le buone azioni, sistemavo la mia coscienza di piccolo furfantello. Lo dichiaro apertamente a perenne vituperio del vile misfatto.

Ma ritorniamo a noi. Le vite di Chandler e di Poe mi hanno sempre appassionato come tutte le vite un po’ (o parecchio) “sbandate” di tanti grandi scrittori ed artisti. Forse per una specie di contrasto con il grigio tran tran della mia. Inutile farne il riassunto. La conoscono tutti (quella di Chandler). Ciò che colpisce di più sono l’educazione vittoriana, la buona scuola, il matrimonio con una “mamma” più vecchia di lui e l’alcool. Da questo miscuglio (e da altro ancora) nasce lo scrittore Chandler. E dallo scrittore Chandler nasce il suo Doppio: quel Philip Marlowe che rappresenta il rovescio della medaglia dell’uomo Chandler, con il suo senso di giustizia e di “pulizia” morale. Nell’arte, (secondo quanto si apprende da “La semplice arte del delitto”), ci deve essere sempre un principio di redenzione che viene incarnato, quando si tratti del giallo realistico, dall’investigatore. Egli allora diventa l’”eroe” senza macchia e senza paura, il “tutto”. Ma questo eroe chandleriano, Philip Marlowe, appunto, si sdoppia nelle sue manifestazioni esterne brutali e ciniche perché “per una metà risponde a un codice dell’onore tutto britannico” e per l’altra metà “ostenta la crudezza colloquiale e il pratico individualismo dell’uomo americano”.

Anche la vita di Poe non è stata da meno nel colpire la mia fantasia. A dir la verità non solo la mia perché la sua fine piuttosto “strana” ha attirato quella di Matthew Pearl. Con “L’ombra del maestro” pubblicato dalla Rizzoli nel 2006, immagina che un riccone ammiratore di Poe voglia dipanare tale mistero servendosi dell’investigatore francese  Auguste Dupont, evidente riferimento al Dupin di Poe. Su di lui si è lanciato come un falco pure Andrew Taylor con “Il ragazzo americano”, Editrice Nord 2006, dove il ragazzo americano è proprio il nostro giovane Poe che se ne va in Inghilterra. Insomma il fondatore supremo della detective story sembra proprio di moda.

E. A. Poe
E. A. Poe
Il primo impatto con Poe lo ebbi attraverso il camioncino (così lo chiamavamo noi ragazzi) della cultura popolare che veniva ogni tanto nel mio paese a portare dei libri da leggere in prestito. Con grande sospiro di sollievo del giornalaio, suppongo. Una specie di piccola biblioteca ambulante. Lì trovai I delitti della Rue Morgue, pubblicati nella Universale BUR (se ricordo bene avvolti in una deprimente copertina grigiognola)  che mi lasciò letteralmente di stucco.

Dunque (scusate queste istintive “svicolate” personali) anche la vita di Poe mi ha colpito non poco. Vi troviamo un intermezzo inglese, buoni studi, un matrimonio con una cugina tredicenne il cui aspetto fragile ed etereo gli ricorda la madre morta di tisi e, ancora una volta, l’alcool. Una vita tutta genio e sregolatezza dove è difficile assegnare la palma all’uno o all’altra.

Il Doppio di Poe è Dupin che razionalizza una realtà interna a dir poco magmatica e tutta sconvolta ma che diventa l’altro, l’opposto, quando entra in uno stato di trance prima della risoluzione del mistero. Come se la razionalità dipendesse, dopotutto, da una specie di forza irrazionale.

Si tratta, per dirla con Tani, di “Due autori a disagio con se stessi che proiettano creativamente il proprio conflitto su personaggi ugualmente doppi, ma in cui quel conflitto si compone e si armonizza sotto l’egida dell’attività investigativa”.

Appunto. Di due Doppi che si sdoppiano.

 

P.S.

Su Marlowe scacchista (non c’entra nulla con quello detto sinora ma ce lo infilo lo stesso) Chandler è piuttosto vago. In una lettera a Ibberson (un lettore che vuole sapere tutto su Marlowe) del 19 aprile 1951 scrive testualmente “A scacchi non direi che arrivi agli standard dei giocatori di torneo. Non so dove abbia trovato il libriccino in brossura sulle partite di vari tornei pubblicato a Lipsia, ma gli piace perché per designare le caselle sulla scacchiera preferisce il metodo continentale” (in “Raymond Chandler-Romanzi e racconti 1943-1959” Mondadori-I Meridiani 2006).

 

Sito dell’autore www.librisdiscacchi.135.it