Gli autori più originali non lo sono perché promuovono ciò che è nuovo, ma perché mettono ciò che hanno da dire in un modo tale che sembri che non sia mai stato detto prima


(W. Goethe)

La sola idea di essere condannato a uno schema prestabilito mi atterrisce

(R. Chandler)

 

Probabilmente Raymond Chandler avrebbe detestato ritrovarsi in un articolo. “Perché mai uno scrittore deve parlare di sé come persona? E’ una tale seccatura”. Prolisso nella corrispondenza, alcolizzato nella scrittura, nocivo nella critica e più che mai nell’autocritica. Nato a Chicago nel 1888, da genitori quaccheri irlandesi, Raymond respira europeo da subito. Dopo il college soggiorna in Germania e Francia, lui che di commistioni ne ha già nel sangue e che sempre sarà diviso tra America e Inghilterra, sognando un avvenire da filologo comparatista. A vent’anni i primi tentativi letterari. Spirito originale e faccia tosta, lo spingono a contattare il titolare di The Academy, per offrirsi di comprarne una quota. Ottiene un rifiuto e scaffali di libri da recensire. Poi l’incontro prolifico con Black Mask, giornale del Capitano Shaw, dove va a segno con il racconto Blackmailers don’t shoot, primo di una lunga serie. Il primo romanzo è The Big Sleep (1939): tre mesi di gestazione, con annessa cannibalizzazione  (tecnica di sintesi di più racconti). Così nacque Marlowe, o meglio, germinò in quella che può considerarsi la sua prima forma compiuta, rispetto ai precedenti avatar. Background californiano, 1,80 cm, 38 anni per diverso tempo, whiskey, scacchi e malinconia. Otto i romanzi che lo vedranno protagonista, in una prosa in cui le pistole di Hammett, maestro dichiarato e talvolta scomodo, si coniugano con il malessere sociale, il disagio, l’umanità. Nero su bianco la natura umana della detestata Miss Marple a suon di schiaffi, sangue e alcol. Una dichiarazione di guerra al nemico endemico whodunnit, il cui manifesto è The Simple art of murder (1944): “sarei costretto a tornare indietro, a pagina quarantasette, per rinfrescarmi la memoria sull’ora esatta in cui il secondo giardiniere ha trapiantato la begonia color tè”.[1]  La struttura macchinosa contro la spudorata bravura linguistica, l’immediatezza scenica. La trama arabesca contro la parola esplosiva. Iliade metropolitana della California corrotta, nevrotica, assassina, trasposta su carta con un sarcasmo, a tratti, parossistico. Hard boiled è duri da strada, dark ladies spodestano vecchie zitelle compite, fumano l’inverosimile, bevono come un congresso di reduci e hanno meno remore di un uomo nell’uso delle armi. Interlocutrici dalle spalle larghe, che si aspettano cattiveria verbale e se ne offendono meno che se si offrissero loro ferri da calza, roba da illibate ottuagenarie. Marlowe cavaliere con macchia e peccato, ma anche coscienza e ironia, talvolta prodigo di una proprietà di linguaggio che ne idealizza i toni. Chiamato per collaborare con Billy Wilder (Double Indemnity), Chandler approdò a Hollywood. Lui sceneggiatore, Marlowe protagonista. Sono gli anni ‘40, noir e maccartismo colonizzano il grande schermo. La relazione con il cinema è ostica, più nei rapporti umani che non nelle parole, per queste ultime, Chandler è pubblicato, letto e candidato all’oscar: “Se i miei libri fossero stati peggiori non avrebbero dovuto invitarmi a Hollywood, e se fossero stati migliori non sarei dovuto andarci”. Il cadavere della biblioteca su siepe di orchidee era senz’altro più aureo, ma chi ce l’aveva una biblioteca a Hollywood?, chioserebbe forse Chandler. Uomo sul baratro, diviso tra alcol, amore e sarcasmo. Muore a La Jolla il 26 marzo 1959.

[1] Raymond Chandler, The simple art of murder, 1944