Il grande Bob di Georges Simenon, Adelphi 2025.

Non c’è niente da fare, l’ho già scritto altre volte e lo ripeto. Quando esce un libro di Simenon me lo becco anche se letto e riletto. E mi crogiolo nella sua splendida scrittura.

Qui abbiamo la morte di Bob Dandurand che colpisce in modo particolare l’amico dottor Charles Coindreau soprattutto dopo che ha saputo trattarsi di suicidio. Non comprende come un uomo allegro e spensierato, pronto alla battuta (“Che spasso!”), ottimo giocatore di belote, dedito ai “bianchini”, alla pesca del luccio e alle amanti (la cicciotta ed esuberante moglie Lulu accettava i tradimenti), si sia potuto togliere la vita. E allora via a condurre un’indagine personale  interrogando chiunque lo abbia conosciuto, partendo dalla moglie fino agli amici del Beau Dimanche, una locanda che frequentava sulle rive della Senna. Indagine che diventa piano piano sempre più un continuo e incessante arrovellamento. Avremo personaggi su personaggi che si alternano con le loro peculiari caratteristiche. Basta un tocco, uno spunto per renderli vivi e impressi nella memoria. Importanti i colloqui con Lulu che racconta la sua difficile vita di ragazza e quella con Bob, il grande Bob come veniva chiamato da chi lo conosceva, e poi colloqui con l’ultima delle sue numerose amanti ed i parenti, tanto da far venir fuori una davvero complessa, insospettata figura del suicida. Ma questa testarda indagine del dottore diventa alla fine anche una specie di autoanalisi della sua vita. Insomma la scoperta vera di se stesso con un senso di inutile vuoto e di smarrimento che viene trasmesso ai lettori.

Come è già stato rilevato la struttura del romanzo è simile a quella di Quarto potere di Orson Welles, ossia il ritratto di un uomo appena defunto attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto.

Buona lettura.

 

 

 

Il grande Bob

La scoperta di se stesso…

Il grande Bob di Georges Simenon, Adelphi 2025.

Non c’è niente da fare, quando esce un libro di Simenon me lo becco anche se letto e riletto. E mi crogiolo nella sua splendida scrittura dove non c’è una parola in più o una in meno.

Qui abbiamo la morte di Bob Dandurand che colpisce in modo particolare l’amico dottor Charles Coindreau soprattutto dopo che ha saputo trattarsi di suicidio. Non comprende come un uomo allegro e spensierato, pronto alla battuta (“Che spasso!”), ottimo giocatore di belote, dedito ai “bianchini”, alla pesca del luccio e alle amanti (la cicciotta ed esuberante moglie Lulu lo accettava), come lui si sia potuto togliere la vita. E allora via a condurre un’indagine personale  interrogando chiunque lo abbia conosciuto, partendo dalla moglie fino agli amici del Beau Dimanche, una locanda che frequentava sulle rive della Senna. Indagine che diventa piano piano sempre più importante, insistente, un continuo arrovellamento.

Personaggi su personaggi che si alternano con le loro caratteristiche, vedi quelli presenti al funerale compreso il prete,  basta un tocco, uno spunto a renderli vivi e impressi nella memoria…Ecco al funerale Lulu…ecco…piano piano emergono i lati oscuri di un uomo…nella sua casa a Montmartre  un sacco di amici, di persone di qualunque estrazione sociale, l’indagine diventa un’autoanalisi, la sua vita, la moglie, i due figli, la scoperta del senso del vuoto e dell’inutile, che cosa deciderà il dottor Charles Coindreau?…l’incontro sessuale con Adeline una delle amanti di Bob, del grande Bob come veniva chiamato, continui colloqui con Lulu, la sua vita piena di aborti e quella con Bob, colloqui con i parenti ed ecco che piano piano viene fuori la complessa figura di Bob, del grande Bob. Ma perché si è suicidato? Quale il motivo? Come potrà andare avanti Lulu? E questa ricerca del dottore che conseguenze può avere su di lui?…  

Come è già stato messo in rilievo la struttura del romanzo è simile a quella di Quarto potere di Orson Welles, ossia il ritratto di un uomo appena defunto attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto.

Buona lettura.

«Negli ultimi tempi aveva un modo particolare di guardarsi allo specchio dietro le bottiglie. Quando un uomo come lui comincia a scrutarsi negli specchi, mi creda, non è un buon segno». Una riflessione, questa del padrone del bistrot dove il suo amico Bob, morto da pochi giorni, andava a giocare a carte, che colpisce profondamente il dottor Charles Coindreau. Non appena ha saputo che quella di Bob non è stata una morte accidentale, come sulle prime si credeva, bensì un suicidio, ha deciso di condurre una sorta di indagine, e di interrogare chiunque l’abbia conosciuto, a cominciare dalla moglie e dall’ultima delle numerose amanti. Perché lui, come tutti, ma più di tutti gli altri, si arrovella sul motivo che ha indotto a togliersi la vita uno come Bob: sempre allegro, e allegramente sfaccendato, sempre pronto alla battuta, gran giocatore di belote e gran consumatore di «bianchini» a qualunque ora del giorno – non per caso lo avevano soprannominato il Grande Bob. Nella casa di Montmartre dove abitava insieme alla sua polposa, esuberante, forse un po’ volgare ma radiosa moglie Lulu, la porta era sempre aperta, e vi si potevano incontrare persone di ogni estrazione sociale, e «ognuno era libero di comportarsi o di parlare a suo piacimento, con la certezza di non scandalizzare nessuno». Così come nessuno si scandalizzava del fatto che Lulu accettasse i tradimenti di Bob: le bastava che lui fosse felice. Scavando nel passato dell’amico, immergendosi nei lati oscuri di un uomo che a tutti sembrava l’immagine stessa della gioia di vivere, e persino, a volte, sovrapponendosi a lui, Coindreau finirà per scoprire la verità sulla morte di Bob – ma soprattutto qualcosa su sé stesso.

Bob, un uomo conosciuto da tutti come il simbolo dell’allegria e della spensieratezza, si toglie improvvisamente la vita, lasciando un’intera cerchia di amici e conoscenti smarriti e pieni di domande. La notizia viene annunciata dalla moglie Lulu con un’insolita freddezza, sostenendo che si sia trattato di un incidente. Tuttavia, ben presto emerge una realtà diversa: si tratta di un suicidio. La notizia sconcerta il gruppo di amici e conoscenti che si ritrova regolarmente al Beau Dimanche, una locanda sulle rive della Senna. Bob adorava giocare a carte, concedersi aperitivi e amava accogliere chiunque nella sua casa di Montmartre, dove viveva con la moglie. Chi avrebbe mai sospettato che dietro il sorriso smagliante e le battute sempre pronte di Bob si celasse un abisso di sofferenza? Cosa può aver spinto un uomo come lui, così apparentemente realizzato e felice, al suicidio? Il dottor Charles Cointreau, uno degli amici più stretti della coppia, non si dà pace. Perché Bob ha scelto di morire? Determinato a trovare una risposta, Charles si immerge nel passato dell’amico, portando alla luce non solo il motivo del gesto estremo, ma anche profonde rivelazioni su se stesso. Il romanzo “Il grande Bob” ci conduce in un viaggio alla scoperta di un uomo tormentato, che dietro un velo nasconde lati oscuri e segreti irrisolti.

Oltre al solito fulminante incipit, in cui il narratore esordisce con una negazione («Quella domenica non ero a Tilly»), c’è una scena de Il grande Bob che ci restituisce il miglior Simenon. L’eroe eponimo è morto alla soglia dei quarantanove anni, probabilmente suicida; il narratore, suo amico, va al funerale. Al seguito del feretro, circa trecento persone formano un corteo lungo un centinaio di metri. La descrizione di questa folla sembra presa da un film di Jean Renoir, per come lo sguardo si muove dall’insieme al dettaglio, dalle figure allo sfondo, dai protagonisti alle comparse (del resto uno dei primi estimatori italiani di Simenon, Alberto Savinio, definì “cinematografici” i suoi racconti brevi). C’è la vedova, Lulu, che si è tinta i capelli il giorno prima del funerale; c’è la guardia campestre di Montmartre con la casacca azzurra; c’è il prete che avanza a grandi falcate, «come un calciatore» scrive Simenon, e fissa i passanti con un atteggiamento di sfida; ci sono i caffè, i tavoli con le tovagliette a scacchi e i pullman che portano gli stranieri, e poi «una ragazzona bionda», in pantaloncini corti, che scatta qualche foto. Non sappiamo chi sia questa ragazza e non ne sapremo più niente, e lo stesso capiterà con tanti personaggi di passaggio che si avvicendano nel romanzo. In poco più di una paginetta Simenon ci riempie di stupore e ammirazione perché sembra avere tutto ciò davanti agli occhi, come se un minuto prima si fosse affacciato da una finestra del quartiere parigino, mentre in realtà nel maggio del 1954, quando in appena due settimane scrive il romanzo, Simenon soggiorna a Lakeville nel Connecticut. Ma più si allontana dalla Francia, più la Francia vive nella sua immaginazione spaziale.

Il grande Bob è apparso per la prima volta in Francia nel 1954 e poi nel 1962 in Italia; Adelphi lo ripubblica ora con una nuova traduzione di Simona Mambrini. La struttura del romanzo è simile a quella di Quarto potere di Orson Welles, ossia il ritratto di un uomo appena trapassato, attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto, raccolte da una persona che non è un detective (un giornalista nel caso di Quarto potere, un medico nel caso di Il grande Bob). Bob Dandurand non è stato un magnate dell’editoria né altro tipo di uomo di successo; in realtà, pur provenendo da una famiglia influente a cui ha voltato le spalle, non ha combinato molto nella vita, ma la sua energia straripante, votata per lo più allo spreco, è stata contagiosa per chi gli è stato accanto.

Bob c’è sempre, per tutti; la sua casa è sempre aperta, non si ha mai l’impressione di disturbare, si può andare dai Dandurand per passare del tempo, per giocare a carte, bere un bianchino, farsi due risate. Non succede niente, dai Dandurand, è solo un luogo di socialità che sprigiona «un’atmosfera di spensierata indolenza». Bob ama la vita, per questo è difficile accettare l’idea che una domenica all’alba si sia inabissato volutamente nella Senna, dunque il narratore indaga, interrogando i testimoni delle ultime ore, l’ultima donna incontrata, l’ultimo oste, l’ultimo amico, la moglie. L’istante della morte resta inattingibile e allora si può soltanto raccontare tutto il resto.

Se la differenza tra poesia e storia sta nella selezione degli eventi e dei personaggi, Il grande Bob propende per la storia, ossia l’intero campo degli eventi e anche dei personaggi privi di un mandato drammaturgico ma individuati da un nome proprio, apparizioni di un momento, come questa: «La vecchia Rosalie Quéven, la chiromante che legge il futuro nei fondi di caffè, era sprofondata nell’unica poltrona, con gli occhi cerchiati di rosso come al solito»; o anche «il pittore Gaillard era seduto in un cantuccio, congestionato come al solito». Di fronte alla morte enigmatica, Simenon sceglie l’anti-indagine fondata non già sulla ricerca dei fattori che hanno prodotto i fatti, ma sulla modalità frequentativa degli atti ripetuti, sull’indicativo imperfetto, il tempo dell’abitudine e della finalità senza scopo; e al posto di grandi personaggi, sceglie la moltitudine che abita il mondo.

L’anti-indagine sul suicidio dell’amico diventa così, col passare del tempo, un’auto-analisi che si snoda per tappe di avvicinamento, di immedesimazione in Bob: prende a frequentarne la casa, ad assumerne i vizi e compiere gli stessi peccati ma con cautela, in dosi omeopatiche e con senso di colpa, sapendo fin dall’inizio che non sarà in grado di «far luce su uno dei lati più oscuri della natura umana». Sono pagine che costituiscono quasi una cartella clinica della condizione maschile, del collasso identitario di un soggetto ancora legittimato al dominio ma improvvisamente disorientato e scarico, giacché il suddetto dominio appare vuoto, immotivato e fine a sé stesso; è un soggetto, citando Il disprezzo di Moravia (pubblicato nello stesso anno de Il grande Bob), che avverte «un’oscura angoscia, come di chi, tutto ad un tratto, si senta mancare il terreno sotto i piedi». La risposta di Bob è stata andarsene via; il narratore, al contrario, si lascia vivere.