— Perché l’ho uccisa io — rispose infine.
Si può dire che il romanzo parta in realtà da questo momento. L’assassino stabilisce un contatto con il reporter. Una corsia preferenziale, una linea di fuoco diretta che taglia fuori i detective della omicidi, Martinez, giovane e cordiale e Wilson, burbero e inacidito da anni di battaglie contro il crimine.

E così entra in gioco il terzo elemento che ancora mancava alla storia: il Vietnam. Bastano un paio di telefonate e tutto sembra chiaro. L’assassino sta ricostruendo con spietata lucidità un ricordo della guerra in Vietnam. Così almeno sembra. Annuncia altri omicidi e lascia intendere che c’è un piano preciso dietro quello che avverrà, anche se non è disposto a svelarlo nella sua interezza. Racconterà allora di un’infanzia terribile, di un padre violento e un’adolescenza che ha ricomposto gli equilibri in famiglia. Poi arriverà a raccontare della guerra, quella maledetta guerra che tormenta ancora i sonni di tanti veterani abbandonati e dimenticati dal sistema. La paura di un nemico invisibile, di lunghe notti d’attesa, quando anche il silenzio è minaccioso.

Dopo la ragazza trovata morta nel campo da golf è la volta di una coppia di anziani, uccisa nella propria abitazione. Ma è ancora una volta il racconto dell’assassino a essere interessante, non l’atto in sé. Il modo in cui ha scelto le vittime, la storia toccante di come i due coniugi hanno capito che era giunta la loro ora e del modo in cui si sono preparati alla morte. La pazzia dell’assassino è alimentata dal dialogo con Malcom Anderson e con le vittime stesse. La soddisfazione si annida proprio nei momenti che precedono l’omicidio, nelle lunghe ore in cui condivide le proprie emozioni con le persone che ucciderà. È l’intimità a essere protagonista, il dialogo, non la morte.

Settimane di fuoco per Miami e per il reporter più letto del momento. Ma presto la tensione sfiora anche la vita familiare di Anderson. La sua compagna Christine Connolly non può più sopportare tutta quella situazione. Il rapporto scricchiola e la donna non riesce più a comprendere il suo uomo. Un reporter vive di notizie, questo è comprensibile. Ma è possibile che una persona possa tenere più al prossimo articolo da scrivere piuttosto che alla cattura di uno spietato assassino?

Ed è lo stesso Anderson a non saper trovare una risposta a questo quesito. Che i suoi articoli fossero di stimolo per il folle veterano del Vietnam? Continuare a parlare con lui al telefono e pubblicare tutti quegli articoli oppure dare un taglio a tutta quella storia?

Alla fine la scelta è obbligata. Andare avanti. Altrimenti l’assassino avrebbe trovato un altro giornale a cui raccontare la propria storia. Anche Bill Nolan, fraterno caporedattore del Miami Journal, è di questa idea. Non si può mollare la presa proprio adesso.

In un crescendo di tensione e con qualche colpo di scena ben studiato (con l’appassionante racconto di un terribile massacro in un villaggio del Vietnam) il romanzo scivola verso l’inevitabile conclusione. Non sveleremo nulla, naturalmente, ma è chiaro che una resa dei conti deve pur esserci. Abbiamo un assassino e stiamo leggendo un romanzo che almeno per buona parte delle intenzioni è un giallo, quindi è chiaro che il lettore dovrà avere alcune risposte. Alcune. Infatti è proprio in questo probabilmente che Katzenbach trova il modo di garantire al romanzo quel tocco di originalità che manca in altre scelte. E, dovendo aggiungere che manca anche il ritmo, in qualche modo, psicologia del veterano a parte, si doveva trovare il sistema per scuotere il lettore.

È quando l’assassino, che alla fine avrà anche un nome, Alan Delour, arriverà vicino a Christine che Malcom sentirà l’esigenza di chiudere al più presto. La notorietà e gli articoli in prima pagina adesso non hanno significato. Delour deve essere preso, deve essere fermato.

Maledetta estate esce nel 1982. Solo tre anni più tardi, addirittura prima che Katzenbach diventi scrittore a tempo pieno (con Facile da uccidere, The traveller, 1987), il romanzo viene scelto per la trasposizione cinematografica. In Italia il film è giunto nelle sale con lo stesso titolo del romanzo (nella sua traduzione italiana, ovviamente), mentre per la produzione americana si passava da In the heat of the summer a The mean season.

Dobbiamo ammettere che il film non dà l’impressione di essere una grande produzione. Un cast interessante, è vero, ma alla fine è dal punto di vista tecnico che lascia un po’ a desiderare (regia, ritmo, fotografia, sceneggiatura). Non dipende nemmeno dal fatto che stiamo valutando una pellicola che a oggi ha ben 25 anni, visto che negli occhi abbiamo le immagini di film anche più datati che hanno saputo superare incolumi le decadi che si sono lasciati alle spalle.