Delitti a Cinecittà di Umberto Lenzi, Mondadori 2013.

C’è di tutto e di più in questo marzo 1940 a Roma sotto il regime fascista e ai prodromi della seconda guerra mondiale. C’è il Trio Lescano, Rabagliati, Castellani, Gino Cervi, Blasetti, De Sica, Camerini, Scerbanenco, Zavattini, Spadaro, Titina De Filippo, Totò con a prescindere, perdincibacco, quisquiglie senza le pinzillacchere, ci sono i film e le canzonette d’epoca snocciolati lungo tutto l’arco della storia come una ininterrotta cantilena.

Ci sono i personaggi principali tra cui primeggia Bruno Astolfi, investigatore privato con agenzia in via Piemonte al quarto piano di un vecchio palazzo, “dimissionato forzatamente da commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza” per le sue idee antifasciste (il fratello all’estero). Appartamento di cinquanta metri adiacente all’ufficio, Balilla di seconda mano, Macedonie extra, caffè autarchico (da manata galattica), Cinzano bianco e via tra mille difficoltà.

Per non farla lunga c’è Luisa Ferida, attrice, che gli propone di scoprire chi è l’attentatore alla sua vita e allora le cose vanno meglio dal punto di vista pecuniario e si incomincia a respirare.

C’è lo scontro con vito Patanè, commissario capo di pubblica sicurezza, a rappresentare l’odioso fascistello, i morti ammazzati del presente e il morto ammazzato del passato, i possibili assassini, un biglietto listato a lutto, un diario, i pedinamenti, gli spari, le botte, l’incubo, il pensiero e l’azione, il siparietto d’amore (citati pure gli scacchi).

C’è una prosa leggera e veloce, ricca d’entusiasmo e di saltellante ingenuità narrativa tipica (di solito) del primo parto.

Congratulazioni, ma al secondo meno ciance.