Alessandro Sbrogiò ci racconta del suo terzo romanzo, Il falò del Saraceno, pubblicato da Bookabook e arrivato tra i finalisti del Premio Garfagnana in Giallo Barga Noir 2020 quando era ancora inedito.

Andiamo quindi a scoprire la penna di questo autore siciliano di nascita e veneto di adozione. Se la musica è stata al centro della sua vita portandolo a calcare i palcoscenici dei più importanti teatri del mondo e a incidere per case discografiche come Deutsche Grammophon e Sony Americana, la scrittura rappresenta l’altro grande, vecchio amore mai dimenticato.

Alessandro, come ti sei avvicinato alla scrittura in generale e, in particolare, alla letteratura gialla?

Alla scrittura mi sono avvicinato, come credo tutti, tramite la lettura. Da inquieto entusiasta quale sono, dopo aver letto libri che mi avevano galvanizzato, ho tentato di mettermi alla prova. Devo ammettere con grande frustrazione all’inizio, perché se hai un minimo di senso critico la delusione è inevitabile, ed è giusto che sia così. È quel desolante senso di inadeguatezza il motore che ti spinge a tentare di superare i tuoi limiti. Comunque, è stata proprio la letteratura gialla, insieme ai romanzi d’avventura, a scatenare la mia passione per i libri: indimenticabile rimane la collana I Gialli dei Ragazzi di Mondadori, che quelli della mia età ricorderanno. Del cosiddetto “giallo” amo la speciale interazione tra autore e lettore, perché quest’ultimo diventa a sua volta investigatore, una sorta di realtà immersiva, più cerebrale che digitale.

In queste pagine porta i lettori in un’afosa estate siciliana alla fine degli anni Settanta. Tre amici si imbattono in una notizia del passato: la notte del 28 luglio 1949, il signor Saraceno, tornato al paese natio dopo una lunga assenza, si è dato fuoco sulla scogliera. A trent’anni di distanza, le cause del suo gesto ancora non sono state chiarite. Quali elementi tipici del giallo troviamo?

Certamente il mistero che scatena nei tre protagonisti voglia di verità. C’è un suicidio molto discutibile avvenuto trenta anni prima in una bizzarra casa sul mare, un’amante francese di cui si sono perse le tracce, un motociclista arrivato in Sicilia da Marsiglia quando le autostrade non esistevano ancora, un vecchio foglio ingiallito di un quotidiano con la ricetta delle Madeleine di Proust, un antico pezzo di stoffa tutto da interpretare e una cittadina siciliana di provincia. Questi gli elementi principali, credo a buon titolo riconducibili a un romanzo d’indagine. Devo però sottolineare che il “giallo” è ormai diventato un contenitore e la sua ricchezza è data anche dagli altri argomenti che si sviluppano parallelamente alla risoluzione del mistero. Basti pensare ai thriller storici o a quelli sociali. Mi piacerebbe che de Il falò del Saraceno non rimanesse solo la sorpresa per il finale, ma tutte le riflessioni che ne costruiscono la trama.

Il “sospetto che si insinua” che ruolo ricopre?

Ricopre l’innocente e visionaria interpretazione della vita che hanno gli adolescenti. Dove nessuno ha visto qualcosa di losco, i miei tre giovani protagonisti, trent’anni dopo, annusano il mistero, forse un inganno, ma intuiscono anche una storia di viaggi, d’amore e di morte, elementi che a quell’età fanno parte dell’immaginario, dell’avventura che ci si aspetta dalla vita. Indagando su quella vecchia storia in realtà indagano sé stessi e il loro futuro, come se fossero davanti a uno specchio. A pensarci bene, a mia volta, ero io che indagavo sulla mia adolescenza e su quel periodo, nello stesso suggestivo gioco di specchi con cui si conclude il romanzo.

Come hai dato vita ai personaggi? Sono loro che sono venuti a bussare alla tua porta?

Più che i personaggi, quasi sempre inventati, ho tentato di immortalare dei caratteri, delle peculiarità tipiche dei siciliani, ma anche descrivere la comunità di provincia, fatta sì di pregiudizi borghesi ma anche di personaggi pittoreschi che ne sconvolgono l’ordine, che danno colore all’insieme. Quasi nessuno dei personaggi esiste davvero, anche se i miei concittadini augustani non potranno non riconoscere luoghi e fattezze di qualcuno, ma sono solo colori sulla tavolozza che ho usato per raccontare questa storia. Inutile nascondere il fatto che quello è l’ambiente in cui sono cresciuto, ne ho solo filtrato il ricordo tanti anni dopo, forse l’ho anche shakerato un po’, ma l’effetto è sempre quello. L’ultima ri-scrittura l’ho fatta durante il lockdown e ricordo ancora quale piacere fosse infilarmi la sera in questa vicenda. È proprio vero che scrivere equivale a una seduta psicanalitica, ti sforzi di ricordare e ricomporre, sei costretto a spiegare tante cose irrisolte, a descrivere con parole giuste e definite stati emozionali rimasti confusi negli anni.

Oltre al dipanarsi delle vicende, ci sono altre tematiche che hai voluto toccare?

L’intento principale era raccontare la voglia di vita e avventura di noi adolescenti siciliani degli anni Settanta, distanti migliaia di chilometri dai grandi avvenimenti di quel tempo. Volevo ritrovare soprattutto la goliardia, ma anche la bellezza, i sogni e l’ottimismo con cui guardavamo al futuro. Di quel mondo però facevano parte anche componenti negative, l’inquinamento per esempio. L’ecologia era agli albori e io iniziavo a vivere la strana dicotomia del disprezzo verso il polo industriale e la coscienza di esserne figlio, nel senso che mio padre si trasferì ad Augusta proprio per lavorare nelle raffinerie e lì conobbe mia madre. L’inquinamento e le raffinerie rimangono uno dei grossi problemi di quel pezzo di Sicilia, anche se molta della bellezza descritta da Tomasi di Lampedusa, per nostra grande fortuna, resiste all’attacco dell’uomo.

Infine, a che tipo di lettore o lettrice lo consiglieresti?

 

Sicuramente a coloro che quegli anni li hanno vissuti. Forse dirò una sciocchezza, ma ho l’impressione che quella generazione sia riconoscibile ancora adesso, per l’impegno sociale e politico, per l’ottimismo e, perché no, la sana e indimenticabile leggerezza. Siamo stati fortunati, abbiamo vissuto momenti difficili ma anche grandi cambiamenti, quasi tutti positivi. Per non parlare del grande sviluppo della musica, della diffusione della scolarità e della cultura. Comunque, lo ammetto: non è un libro rivolto a un target predeterminato, lo vedo di più come un messaggio in bottiglia, lanciato a fluttuare nel mare della schizofrenica comunicazione contemporanea. E mi dispiace tanto per Manzoni, ma i venticinque lettori li ho già superati.