Intervista a Stefano Sciacca, già autore del saggio critico Prima e dopo il noir (Falsopiano 2016), che ne L’ombra del passato (Ed. Mimesis) svolge un particolareggiato e suggestivo lavoro di rievocazione, ispirandosi al cinema nero hollywoodiano, del quale ricorrono tutti i principali motivi.

Stefano, dal tuo studio intitolato Prima e dopo il noir cosa puoi dirci del cinema noir hollywoodiano che ha poi tanto ispirato il racconto investigativo che vede all’opera Michele Artusio nel tuo ultimo romanzo?

Si tratta di una ricerca volta non soltanto a svolgere una panoramica il più possibile completa e analitica dei film noir realizzati a Hollywood tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, ma altresì a rintracciare parentele, discendenze e filiazioni, nel mondo del cinema come in quello letterario, figurativo e teatrale. Attraverso un approccio multidisciplinare ho provato a ricostruire le tappe fondamentali della poetica del dissenso e della disillusione, al quale si è ispirato il cinema nero americano, e a definirne i tratti più salienti.

L’ombra del passato mutua atmosfera, personaggi e, almeno in parte, ambientazione del cinema noir ma partecipa più in generale allo spirito di questa poetica che, alimentata dalla rivoluzione realistica dell’arte e dal pensiero romantico nel corso del XIX secolo, è sopravvissuta sino ai giorni nostri e si esprime in ogni forma di polemica nei confronti della moderna società borghese.    

Mentre scrivevi L’ombra del passato, la tua immaginazione si nutriva di riferimenti cinematografici e pittorici. Quelli cinematografici sono evidenti sin dal titolo del libro: L’ombra del passato, infatti, è anche il titolo italiano di Murder, my Sweet (1944), piccola perla nera hollywoodiana, diretta da Edward Dmytryk, interpretata da Dick Powell (nella parte di Philip Marlowe) e tratta dal romanzo di Raymond Chandler Farewell, my lovely (1940). Meno lampanti, forse, risultano i riferimenti pittorici: vuoi aiutarci a scoprirli?

Nel mio racconto l’ambientazione urbana assume una valenza non solo scenografica ma altresì esistenziale. L’individuo, spaesato e tormentato, si specchia nella città, dilaniata dalle bombe, scossa dal frastuono del traffico, trasfigurata dai cantieri della ricostruzione.

La città del resto è essa stessa specchio della società moderna, divisa, all’indomani del conflitto più che mai, tra gli arricchiti di guerra e la gran massa di disgraziati che hanno perso tutto. L’individuo, la città e la società condividono dunque una natura ambigua e schizofrenica.

La città, con le luci e i locali, le tante opportunità di arricchirsi in maniera più o meno lecita, la promessa di confondersi anonimamente in mezzo alla folla, seduce l’essere umano. Il quale, però, si ritrova improvvisamente scaraventato nel mezzo di un pandemonio che confonde, stordisce, aliena da sé.

Perciò nella mi descrizione di Torino convivono la città caotica, tipica del cinema espressionista tedesco e della rappresentazioni urbane di artisti come Otto Dix e George Grosz (l’autore, tra gli altri, di un celebre dipinto intitolato appunto Metropolis), e la città metafisica di Edward Hopper (la cui estetica ha ispirato il cinema nero hollywoodiano) e di Giorgio de Chirico (che proprio a Torino riconobbe un fascino fortemente perturbante, come forse avrebbe potuto confermare anche Friedrich Nietzsche!).   

Dalla prefazione di Steve Della Casa leggiamo “L’ombra del passato è un vero noir, con colpi di scena, azione, sorprese, segreti nascosti. Leggendolo, mi venivano in mente le ambientazioni de Il bandito di Alberto Lattuada oppure de Il bivio di Fernando Cerchio, due noir neorealistici che sono tra i film più belli di quel periodo. Ma poi me ne dimenticavo, e questo è il complimento migliore: perché nulla è peggio di leggere un libro pensando ad altro. La storia invece tiene, è tesa e coerente, funziona da sola, non ha bisogno del salvagente delle citazioni. Sì, il noir è una miniera infinita: consente di essere originali, anche nel 2020.” Insomma, che cosa “combina” il nostro Michele Artusio?

Artusio, investigatore privato squattrinato, cinico, miscredente, vizioso e scostante, ricalcato piuttosto fedelmente sullo stereotipo del detective privato elaborato da Dashiell Hammett e Raymond Chandler e portato sullo schermo dai registi del noir americano, combina esattamente ciò che hanno combinato in tanti romanzi e film i suoi colleghi d’oltreoceano.

Nondimeno agisce in un contesto diverso, altrettanto sconvolto dalla appena conclusa Seconda Guerra Mondiale ma teatro di eventi non sperimentati altrove: l’occupazione nazista e il terrore delle rappresaglie, la guerra civile e la meschinità della delazione, l’abominio delle leggi raziali e la tragedia dell’olocausto. Ecco un primo elemento di novità.

In secondo luogo, Michele Artusio, pur ripercorrendo le orme dei suoi predecessori stranieri, subisce altresì l’influenza della nostra contemporaneità con la quale, in quanto autore, non posso fare a meno di confrontarmi neppure quando ambiento la mia storia nel passato.

Le considerazioni del protagonista e narratore, che dovrebbero offrire spunti di riflessione e di critica psicologica e sociale, sono dunque applicabili non soltanto al contesto nel quale egli vive ma anche a quello in cui vivono l’autore e i lettori del romanzo. Il noir, del resto, è appunto uno strumento di analisi sociale più penetrante rispetto al giallo deduttivo (concentrato sul metodo di risoluzione del delitto piuttosto che sullo studio delle ragioni che ne hanno determinato la commissione) e analizza l’animo dell’essere umano, restituendone il complesso di vizi e virtù, invece di limitarsi a celebrarne l’ingegno.     

 

È un personaggio per il quale, secondo te, il lettore si trova inaspettatamente e nonostante tutto a fare il tifo?

Mi auguro di sì.

Ritengo che si sia portati ad apprezzare un’opera o una persona quando ci si convince di trovare in loro qualcosa che si stava cercando. Quando si crede di riuscire a vedervi qualcosa di famigliare.

Artusio è molto umano, nella sua dolorosa contraddittorietà, e questo dovrebbe renderlo piuttosto simpatico, almeno a tutti quei lettori che riconosceranno in lui qualità e limiti che sono anche loro.

 

Sei stato abile, infine, a curare l’approfondimento psicologico dei caratteri e la descrizione dell’ambiente sociale e urbano, ma non ritengo siano da meno la riflessione sul senso dell’esistenza umana e sul funzionamento del destino che hai operato. Quali le tue conclusioni?

 

In un passaggio del testo, scrivo che a governare la nostra esistenza è il caso. E «caso» è soltanto un’altra combinazione delle lettere che compongono la parola «caos». Siamo in balia del caos della modernità, privi di limiti, di punti di riferimento. Essendoci voluti affrancare dalla tradizione, dagli insegnamenti del passato, viviamo di autoreferenzialità, di emulazione dei modelli contemporanei che ci vengono imposti dai mass media.

A fronte di tutto ciò, la sola maniera per non perdersi, per non smarrire se stessi, confusi dalle sirene continuamente mutevoli della moda, è dare ascolto alla propria voca interna. Artusio, sia pure con una certa riluttanza perfettamente coerente con il suo caratteraccio, decide di dare retta alla propria coscienza, anche quando risulta più sconveniente. Anche quando sarebbe più utile rinunciare.

Questa scelta non soltanto gli permette di risolvere il mistero nel quale è stato coinvolto e trarsi in salvo dalle peggiori conseguenze che avrebbe potuto patire, ma, soprattutto, gli consente di riconciliarsi con se stesso, di conservarsi unito e quindi unico, diverso, in un mondo spaccato a metà.