Arrivano i ricordi. A ondate. Spesso all’improvviso, senza accorgermene. Non so se capita anche a qualcuno di voi. Ora belli, ora brutti. Mi ci sono abituato e mi fanno compagnia. Vorrei condividerli con i miei lettori. O almeno con quelli che rimangono dopo aver conosciuto l’argomento di oggi. Il primo ricordo che mi assale è il pianto. Da piccolo piangevo sempre. Una belata continua che sentivano pure i vicini di casa “O Lionna (la mia mamma) o che gli fai a codesto bambino?” le chiedeva Corinna (sentite che nomi) dalla finestra di fronte. “Che gli fo, che gli fo. Niente gli fo. E piange senza motivo”. E forse un motivo ce l’avevo, una specie di presentimento, che a undici anni il “mal di cuore” se la portò via. Povera donna. Sul letto di morte fece giurare a Giuseppe, i mi’ babbo (staggese), di non picchiarmi più. E, devo dire che poi il giuramento è stato rispettato. Un saluto, dunque, alla mi’ mamma e a i mi’ babbo. Che riposino in pace. E un saluto anche alla mi’ sorella Clotilde (ma li sentite che nomi?) che mi ha fatto un po’ da mamma. Lei è ancora viva. Anche se sfortunata. Ha perso una figlia, Cristina, che cullavo tra le braccia quando era piccola, lasciando al mondo due bambini, un maschio e una femmina. Così è la vita.

Altri ricordi dei miei amici e dei vecchi del mio paese Staggia Senese. Mi arrivano a gruppi, a frotte come uno stormo di uccelli. Visi, voci, gesti, espressioni tipiche particolari con i loro nomi e soprannomi: Luigino detto il Pocciere perché si pocciava sempre il dito, Maurizio detto Polvere perché era sempre per terra, e poi Rombolino, Mezzasega, i’ Caciaio, Pasta e Pane, Capone  e giù giù fino all’eloquente (per noi) Palloni che non è riferito al giuoco del calcio.

Ricordo ancora con un pizzico di nostalgia gli scherzi che si combinavano come quando d’inverno, caduta la neve, aspettavamo sopra un ponte il passaggio delle persone che tornavano a casa dal lavoro. E che venivano bombardate da un lancio bene accurato di palle di neve tra urla, schiamazzi, improperi e minacciosi inseguimenti. Ricordo le battaglie di mattaione, quella specie di poltiglia azzurrognola che si trovava e si trova tutt’ora nel torrente Staggia e che diventava l’arma principale con la quale si affrontavano le varie bande di noi ragazzi. Tutti nudi, anche a marzo quando l’acqua tagliava le gambe e la pelle diventava bluastra. E poi le partite di calcio dalla mattina alla sera sudati fradici, pieni di lividi e con le scarpe rotte, quelle di tutti i giorni perché non ci si poteva permettere di avere scarpe da football. E a casa erano sgridate e ceffoni perché le scarpe costavano ed un paio dovevano durare tanti anni suolate e risuolate dal calzolaio. E le spedizioni a caccia di susine, pesche, ciliegie e cocomeri con i contadini che ci saltavano dietro inviperiti e se tanto tanto riuscivano a prenderci ci “risuolavano” ben bene come le scarpe. E le scazzottate che nascevano per un nonnulla, per il semplice pretesto di far vedere chi era il più forte. E le risate di quando si raccontavano le barzellette fino a tarda notte, specialmente d’estate lungo la “spianata” che portava fuori dal paese. E che risate! Ridevamo di niente, di una battuta, di un gesto, di uno spernacchio.

E

la pesca. Già la pesca. Quella coi bachini bianchi che si contorcevano di brutto quando li infilavi nell’amo e un po’ di impressione me

la facevano. O la pesca con il granturco e l’uva. Prima andavo ad “impastare” i pesci al torrente con il motorino “Beta” nei posti più nascosti per qualche giorno e poi ci ritornavo con la mia bella canna. Tiravo fuori certi pesci che allora mi sembravano enormi. E poi c’era la pesca a galla con le mosche o i grilli che venivano fatti strisciare lungo il pelo dell’acqua e i pesci vi saltavano sopra che era una goduria tirarli fuori tutti scodinzolanti. Mi piaceva quel contatto solitario, a tu per tu con la natura, e ritornavo a casa felice anche se tutto impantanato e con le gambe ferite dai pruni e dai rovi. A volte aspettavo addirittura la fine del tramonto, quando il sole rosseggiava dietro le colline e calavano le prime ombre. Allora, camminando lungo i viottoli della campagna, mi prendeva una specie di voluttuosa inquietudine e aumentavo i passi fino a correre a gambe levate.

Aggiungo carte e biliardo. In un paese che si rispetti se non sai giocare a carte e a biliardo sei finito. E io ci sapevo fare. Meno a carte e più a biliardo. Soprattutto con