Dopo avere letto alcuni gialli di vario genere, dal classico allo storico, dallo scientifico al noir, dal thriller a quello psicologico mi è venuta la voglia di buttarmi su qualche vecchio testo della famosa hard boiled americana. Ogni tanto mi prende questa mania e bisogna che mi sfoghi. Tra l’altro c’è una casa editrice, la Hobby and Work, che sta ristampando classici davvero interessanti. E allora perché non approfittarne? Come nel caso di Il ghigno d’avorio di Ross Macdonald che mi riporta indietro nel tempo. Ma molto, molto indietro…Approfitto di un mio passato intervento su questo scrittore per unirlo al presente.

A dir la verità i primi gialli della scuola dei duri a stelle e strisce che ebbi tra le mani negli anni cinquanta furono quelli di Brett Halliday con Michael Shayne che beveva Martell come una spugna e di Mickey Spillane con Mike Hammer che “martellava” di brutto. Non per  oculata scelta personale ma per puro caso.  Non avendo in tasca una lira che fosse una (desolata costante di tutta la mia “beata” gioventù) andavo talvolta dal giornalaio del mio paese Staggia Senese che teneva, oltre i giornali, anche riviste e gialli di varia natura. E qui la tentazione era più forte della paura del peccato e quello che veniva veniva. I malcapitati furono per le prime volte proprio Brett Halliday e Mickey Spillane. Poi con qualche “fioretto”, come allora erano chiamate le buone azioni, sistemavo la mia coscienza di piccolo furfantello. Lo dichiaro apertamente a perenne vituperio del vile misfatto.

Passiamo alla sintesi in seconda di copertina “ Nell’ufficio di Lew Archer appare una signora energica e misteriosa che lo assume per rintracciare Lucy Champion, giovane infermiera di colore. La ragazza, che lavorava al suo servizio, è sparita portando con sé alcune cose che avevano un valore relativo, ma la donna si rifiuta di dare ad Archer informazioni più precise sulle ragioni del suo incarico. Evita addirittura di dargli il suo cognome, gli dice che si chiama Oona e, dopo un botta e risposta sarcastico, se ne va stizzita. Archer è abituato agli incarichi destinati a rivelarsi delle rogne. Ma forse è così solo perché non sa farsi gli affari suoi, è un maledetto impiccione con un senso morale che non demorde mai. Così, una volta rintracciata Lucy, si mette a pedinarla e davanti ai suoi occhi incomincia a dispiegarsi uno scenario intricato, pieno di lati oscuri. E non appena scoprirà Lucy ammazzata nella squallida camera di un motel, Archer vedrà la vicenda legarsi a quella della scomparsa del ricco Charles Singleton, in un succedersi di delitti e nuovi sospetti che, come al solito, lo porteranno a varvare la soglia dietro cui si nascondono i torbidi retroscena dell’alta borghesia californiana…”.

La bellezza di questo e degli altri libri di Ross Macdonald sta, non solo nella trama, ma anche nello stile. Inconfondibilmente suo. Ritmo serrato, prosa scintillante ricca di metafore che scoppiano all’improvviso, una ironia ora leggera ora ferocemente sarcastica che pervade il tessuto narrativo. Una capacità istintiva di far vivere con pochi tocchi una folla o un paesaggio che sia quello della natura o quello della città. Un inno alla gioia dello scrivere tanto che restiamo quasi in ansiosa attesa di quali altre gemme ci potrà regalare lo scrittore. E se qualche volta eccede in esuberanza, in maestria pirotecnica, siamo pronti a perdonarlo. E poi c’è questo Lew Archer “la terza incarnazione del Privato gentiluomo” come lo ha definito Oreste del Buono dopo Sam Spade e Philip Marlowe che ci prende, ci affascina. Duro il giusto, se c’è da menare le mani non si tira indietro, ma corretto e provvisto di senso etico. Proprio in questo libro “Sono dalla parte della giustizia, quando mi riesce di ottenerla. E quando non mi riesce prendo le parti dei più deboli e derelitti”.

Ma vediamo di conoscere qualcosa sul suo autore.

Ross MacDonald, pseudonimo di Kenneth Millar (1915-1983), sembra essere nato per suscitare diatribe. Una l’ebbe con John D.MacDonald che lo aveva criticato per l’uso dello pseudonimo  John Ross Macdonald, usato negli anni cinquanta e perfino per il titolo del suo ultimo libro Lew Archer e il brivido blu che si rifaceva alla serie di Mc Gee, caratterizzato anch’esso dalla presenza di un titolo “colorato”.

Anche Chandler, sempre negli anni cinquanta, lo aveva attaccato di brutto. In una lettera a James Sandoe del 14 maggio del 1959 massacra Bersaglio mobile per lo stile  troppo ambizioso e troppo letterario. ( A dir la verità Chandler ce l’aveva soprattutto con James Cain che scriveva, secondo lui, sconciamente di cose sconce. In una lettera al solito Sandoe, del 26 gennaio 1944, scrive “Mi ha sempre irritato essere paragonato a Cain. Il mio editore pensava fosse un’idea astuta perché lui aveva avuto un gran successo  con The Postman Always Rings Twice, ma qualunque cosa io abbia o mi manchi come scrittore, non sono per niente come Cain. Cain è uno scrittore di quel tipo di faux naif che disprezzo in modo particolare”). Questo Ross Macdonald ha colpito l’attenzione di altri scrittori-critici come Manchette che, invece, lo rivaluta. In Le ombre inquiete, pubblicato da Cargo edizioni nel 2006, dice “Ho cambiato opinione riguardo a Ross Macdonald. Lo lasciavo intendere la volta scorsa. Un certo intellettualismo e la piatta fedeltà al classicismo chandleriano, in particolare alla sua figura stilistica più debole-la comparazione immaginosa-, infine la monotonia dell’intreccio, risultano di primo acchito scoraggianti. Alla fin fine, però, è proprio questa monotonia che affascina- in quanto ripetizione. La ripetizione è la chiave di Ross Macdonald…”.

Comunque sia Ross Macdonald è l’ideatore, come abbiamo visto, del detective Lew Archer che fa la sua comparsa nel 1949 in The moving target diventato un film nel 1966 con Paul Newman (con il nome di Harper). Sulle stesse strade di Santa Teresa (oggi Santa Barbara) lavora Kinsey Millhone, una investigatrice privata nata dalla penna di Sue Graft. Da seguire con attenzione.