Non è la prima volta che Sherlock Holmes si misura con un vampiro (o presunto/a tale). Era già successo nel Canone, col vampiro – anzi, con la vampira – del Sussex, e poi in una quantità di romanzi e racconti, fra i quali mi limiterò a citare il bellissimo Londra invisibile (brutta traduzione del suggestivo The Hungry and Ecstasy of Vampires, 1996) di Brian Stableford, dove Holmes appare pur se in modo anonimo, e naturalmente Sherlock Holmes contro Dracula di Loren D. Estleman (2008). Così come Holmes compare insieme a Jack lo squartatore in un certo numero di romanzi, da Uno studio in nero di Ellery Queen (1966) a L’ultimo caso di Sherlock Holmes di Michael Dibdin (1996), per citarne almeno un paio. E non parliamo dei film e dei videogames…

Non è dunque l’assoluta originalità di questo romanzo la molla che ci fa aprire questo libro, né la colla che ci terrà inchiodati un poltrona fino all’ultima pagina. Fin dall’inizio capiamo chi è il vampiro e come si evolverà la storia. 

Eppure Sherlock Holmes e il vampiro di Whitechapel di Dean P. Turnbloom, è talmente ben scritto e l’atmosfera è talmente realistica che questa full immersion nella Londra del 1888 è assolutamente da non perdere. E non è tutto qui: questa è anche una storia di immigrati, di matrimoni combinati, di falsi Van Gogh, di vicende ai confini tra scienza e superstizione e alle radici delle moderne scienze forensi.

E’ facilmente intuibile che, in questo contesto, delitti apparentemente non collegati fra loro riveleranno una fitta trama su cui giocano molte forze di segno diverso. Holmes e Watson, vestiti i panni di cacciatori di vampiri, rubano la scena ai vari hunters a cui ci hanno abituato la televisione e il cinema (pensiamo solo all’instancabile Buffy e all’incredibile Abramo Lincoln di Timur Bekmambetov) e rischiano la vita per risolvere uno dei casi più straordinari della loro secolare esperienza, un caso che si dipana tra Italia, Francia, Inghilterra – oltre che il Dark Continent e l’America. Sì, perché – anche se l’azione si svolge soprattutto a Londra, tra il Lyceum Theatre e Whitechapel, tra pozioni miracolose e ammiccamenti ora a Jekyll & Hyde ora a Dorian Gray – il vampirismo è fin dalla sua nascita un prodotto di facile esportazione, un fenomeno internazionale, anzi globale (molto più del colera che affligge il Bel Paese nel 1873), e anche un fenomeno politico, quasi un’escrescenza dell’Impero (se lo si ricollega alla serie di delitti avvenuti durante la prima e l’instaurazione della terza repubblica in Francia).

Intelligente e colto il riferimento alla Comunità scientifica, che, avendo definitivamente messo al bando la superstizione permette paradossalmente al vampiro di muoversi con maggiore tranquillità. E’ inquietante, ma in queste pagine sono l’Accademia delle Scienze a Parigi e il giovane ematologo che svolge le sue ricerche a Londra a rappresentare il mondo “altro” rispetto a quello del vampiro, che pur seminando cadaveri e addicts in tutta Europa dà continuità alla Storia e unisce le geografie sconvolte dell’Impero e dei paesi circostanti. E non per malvagità, intendiamoci: che anzi il nostro barone cercherà in ogni modo di farsi “guarire” dalla sua straordinaria malattia.

Insomma: Holmes che beve espresso, vampiri cosmopoliti, fanciulle sfortunate e invenzioni strepitose (su tutte quella del fonografo, celebrato del resto dallo stesso Doyle nel suo racconto “The Voice of Science”, 1891), e un Watson umanissimo, grande co-protagonista di Holmes, in una trama serrata e verosimile che ci restituisce tutto il fascino e tutto l’orrore della Londra vittoriana.

Alessandra Calanchi

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