Non c’è che dire: tutti, ad eccezione di Conan Doyle, considerano gli scacchi come una naturale estensione della mente di Holmes. Incredibilmente nel 1948 un editore francese stampa una raccolta di avventure holmesiane con il titolo Un échec de Sherlock Holmes... con tanto di copertina “scaccosa”! Ci sono autori che si sono spinti molto oltre: e se oltre a giocare da solo, Holmes avesse addirittura partecipato ad un torneo scacchistico?  Possiamo trovare echi di quest’idea già agli inizi del Novecento, quando Jacques Futrelle - prima di scomparire nel nulla a bordo del Titanic - diede vita alla suo Holmes personale, un geniale professore dalla logica imbattibile: Augustus S.F.X. Van Dusen, meglio noto come la Macchina Pensante. Questo nomignolo gli viene affibbiato nella sua prima avventura dal fido Hubert Hatch - giornalista che fa le veci del buon Watson - «quando lo scienziato aveva battuto a scacchi un campione del gioco, dopo aver dedicato una sola mattinata allo studio delle regole. La Macchina Pensante affermava che con la logica si risolve qualunque problema e quella famosa partita voleva confermare la sua asserzione». Queste parole sono tratte da uno dei rari testi italiani dell’autore, La macchina pensante (The Case of the Golden Plate, 1906), mentre l’avventura scacchistica citata è da noi inedita: The Problem of Dressing Room A, liberamente consultabile in rete: www.futrelle.com/stories/ProblemOfDressingRoomA.html La storia - che nessuno sembra in grado di poter datare - è ambientata durante un torneo di scacchi a Boston. «Gli scacchi sono una vergognosa perversione delle funzioni cerebrali» sentenzia sferzante il professor van Dusen, ma in realtà grazie alla potenza della sua mente batterà fior di campioni ad un gioco... che addirittura disprezza.

«Un torneo di scacchi è un posto strano per incontrare ragazze» afferma uno dei personaggi del film Lo stratagemma del cavallo bianco (2001), della serie Murder Rooms. Protagonista del quarto episodio della serie che racconta le indagini del geniale Joseph Bell (Holmes) e il fido assistente nonché biografo Arthur Conan Doyle (Watson), fra i personaggi c’è una donna esperta negli scacchi, Isadora Blaney, che addirittura ha scritto tre libri sull’argomento prima che una malattia le impedisse di continuare: proprio nella precisa descrizione della partita Steinitz-Labatt del 1883, a New Orleans, Bell-Holmes intuirà la chiave del mistero della storia.

Ma insomma, Holmes ha partecipato ad un torneo scacchistico? Sì, e addirittura ha sfidato il suo acerrimo nemico Moriarty! Ce lo assicura Fritz Leiber, il celebre autore di fantascienza che ha anche sfornato apprezzatissimi racconti scacchistici. (Il suo Incubo a 64 caselle ha il pregio di essere stato il primo racconto presentato dalla neonata rivista italiana ROBOT, nell’aprile del ’76). Sul numero di febbraio 1962 della celebre rivista specializzata “Chess Review” pubblica un racconto purtroppo inedito in Italia: The Moriarty Gambit, raccolto poi in Chess in Literature (Avon 1975), a cura di Marcello Truzzi.

Leiber disegna il giovane Holmes nientemeno che come un «brilliant chess player», seduto di fronte all’avversario Moriarty in un torneo scacchistico del 1873. È davvero superfluo specificare che Holmes vince in maniera brillante e totale, infliggendo addirittura all’avversario l’umiliazione di un “matto delle spalline” (epaulette mate), quando cioè il re sotto scacco rimane incastrato fra le proprie torri (che in quella posizione assumono l’aspetto di sue spalline militari). Non ci stupisce che in seguito Moriarty abbandoni la scacchiera per dedicarsi ad attività criminali...

Prima però di diventare il Napoleone del crimine, Moriarty lancia ad Holmes una profezia: torneranno ad affrontarsi a scacchi. Sembrano vuote parole, invece dopo cinquant’anni diventa realtà, con il film Sherlock Holmes. Gioco di ombre (2011). Diretto dallo stesso Guy Ritchie che ha fatto “rinascere” il personaggio al cinema nel 2009, è scritto da due quasi esordienti della sceneggiatura, cioè i coniugi Michele e Kieran Mulroney. In questa seconda avventura non si poteva omettere una scena dichiaratamente scacchistica, così ben calzante con il personaggio, quindi nel finale abbiamo Holmes che si lancia in una veloce partita a scacchi con Moriarty. «Quindi possiamo giocare al nostro gioco?» è la battuta italiana che davvero perde il fascino dell’originale: «We get to play that game after all».

Usando come cronometri due orologi Fattorini & Sons di Bradford del 1883 - e visto che la storia si svolge nel 1891, la cosa ci sta a pennello - i due grandi nemici giocano velocemente quella che è stata identificata come la partita fra Bent Larsen e Tiger Petrosian nel 1966 a Santa Monica (anche se a colori invertiti): niente male come anacronismo!

A mano a mano che i due giocatori muovono i pezzi sulla scacchiera, le loro frasi lasciano capire che tutta la storia vista fino a quel momento è stata come un’enorme partita a scacchi: i vari personaggi erano solo pedine, nella più sana e antica tradizione della metafora scacchistica della vita. Da Omar Khayyâm a Cervantes a Borges, in ogni epoca ci sono stati autori che hanno sottolineato come le vite umane siano null’altro che partite a scacchi: comunque vada la sfida, alla fine tutti i pezzi finiscono a giacere nello stesso posto oscuro.

Per un’analisi della partita in questione (con relative ipotesi e varianti), si consiglia il blog di chess.com

www.chess.com/blog/SFN/sherlock-holmesa-game-of-shadows

mentre in italiano c’è la video-analisi del Circolo Scacchistico Pistoiese

www.youtube.com/watch?v=Gl6R_59A9FE

 

Non resta che chiudere con il finale de L’ultimo saluto di Sherlock Holmes, dove Conan Doyle si ricorda di nuovo distrattamente degli scacchi. «Lei, Von Bork, possiede una virtù molto rara per un tedesco; lei è uno sportivo e non mi serberà rancore sapendo che lei, che tante volte ha dato scacco agli altri, alla fine ha perso la partita».