- Ebbene? Ho ragione? - Effettivamente c’è un ragazzo che sembra eseguire una qualche incombenza clandestina. - E quale sia codesta incombenza, riuscirebbe a indovinarlo perfino un poliziotto di campagna. Ma da me non avranno una parola, e confido nella sua riservatezza, Dottor Watson. Non una parola! Intesi? - Come desidera. - Mi hanno trattato in modo vergognoso. Vergognoso! Scommetto che durante il processo, quando saranno resi pubblici i fatti della causa Frankland contro la Regina, tutta la contea sarà percorsa da un fremito d’indignazione. Nulla potrebbe persuadermi ad aiutare la polizia in alcun modo. Per quel che gliene importa, quei delinquenti avrebbero potuto mettere al rogo me, anziché la mia effigie. Ma come, vuole già andar via? Prima deve aiutarmi a vuotare la caraffa per festeggiare questa grande occasione! - Resistetti però a tutte le sue insistenze, e riuscii a dissuaderlo dall’accompagnarmi a casa a piedi come aveva annunciato di voler fare. Camminai lungo la strada maestra finché poteva tenermi d’occhio, poi tagliai attraverso la brughiera in direzione dell’altura pietrosa al di là della quale il ragazzo era scomparso. Tutto giocava a mio favore, e giurai a me stesso che non sarebbe stato per mancanza né d’energia né di perseveranza che mi sarei lasciato sfuggire l’occasione che la Fortuna mi aveva offerto su un piatto d’argento.  Il sole stava già calando quando raggiunsi la sommità dell’altura, e i versanti che si allungavano sotto di me erano tutti verde-oro su un lato, e grigi sul lato già in ombra. In basso, sull’estrema linea dell’orizzonte, era sospesa una lieve foschia dalla quale emergevano le forme fantastiche di Belliver e Vixen Tor. Sopra la vasta distesa non si udiva suono né si avvertiva movimento. Un unico grosso uccello grigio, forse un gabbiano o un chiurlo, si librò alto nel cielo azzurro. Sembrava che io e lui fossimo i soli esseri viventi fra l’immensa volta del cielo e il deserto sottostante. Lo scenario desolato, il senso di solitudine, e il mistero e l’urgenza del mio compito mi stringevano il cuore in una morsa di gelo. Del ragazzo, nessuna traccia. Ma più in basso, sotto di me, in una fenditura delle colline, c’era un raggruppamento circolare delle antiche abitazioni di pietra, e una di queste aveva conservato una porzione di tetto abbastanza ampia da poter servire come riparo contro le intemperie. Il cuore mi balzò nel petto allorché la vidi. Doveva essere quella la tana in cui si nascondeva lo sconosciuto. Finalmente avrei varcato la soglia del suo rifugio – tenevo ormai in pugno il suo segreto!Mentre mi avvicinavo alla costruzione, camminando con la stessa cautela con cui Stapleton, col retino sospeso a mezz’aria, soleva avvicinarsi alla farfalla che si era posata, mi persuasi che quel posto era stato usato davvero come abitazione. Un sentiero tracciato in modo grossolano fra i massi conduceva a un’apertura diroccata che fungeva da porta. Dall’interno non giungeva alcun rumore. Forse lo sconosciuto era in agguato là dentro, o forse stava vagando per la brughiera. Avevo i nervi tesi per l’emozione dell’avventura. Gettata via la sigaretta, strinsi la mano sul calcio della rivoltella e, camminando spedito verso l’ingresso, guardai all’interno. L’abitazione era vuota.Ma numerosi indizi dimostravano che non avevo seguito una pista sbagliata. Era certamente qui che l’uomo abitava. Alcune coperte arrotolate in un impermeabile erano posate sulla stessa lastra di pietra su cui un tempo aveva dormito l’uomo neolitico. La cenere di un falò era ammucchiata in un focolare rudimentale. Accanto a esso vi erano degli utensili da cucina e un secchio pieno d’acqua a metà. Una pila di scatole di latta vuote indicava che il luogo era abitato da qualche tempo, e quando i miei occhi si furono abituati alla semioscurità vidi un tegamino e una bottiglia di liquore mezza piena appoggiati nell’angolo. Al centro della costruzione una pietra piatta fungeva da tavolo, e sopra v’era un piccolo fagotto avvolto in una pezza – senza dubbio lo stesso che avevo visto penzolare dalle spalle del ragazzo attraverso il telescopio.  Conteneva una pagnotta, della lingua in scatola e due lattine di pesche sciroppate. Mentre riponevo tutti gli oggetti dopo averli esaminati, ebbi un tuffo al cuore nell’accorgermi che sotto c’era un foglietto con qualcosa scritto sopra. Lo presi in mano, ed ecco cosa lessi, rozzamente scarabocchiato a matita: Il Dottor Watson è andato a Coombe Tracey.

Rimasi impietrito per almeno un minuto col biglietto in mano, cercando di capire il significato di questo conciso messaggio. Ero io, allora, e non Sir Henry, a essere sorvegliato da quest’uomo misterioso. Non mi aveva seguito personalmente, ma mi aveva messo alle costole un suo agente – il ragazzino, forse – e questo era il suo rapporto. Forse non avevo fatto un passo, da quand’ero sulla brughiera, che non fosse stato osservato e riferito. Ed ecco che di nuovo sentivo in ogni dove la presenza di una forza invisibile, simile a una sottilissima rete tessuta tutt’intorno a noi con infinita abilità e delicatezza, che ci stringeva con tanta levità che solo nel momento culminante ci si accorgeva di essere intrappolati nelle sue maglie.