Ci ho messo più tempo di quanto avrei voluto a leggere Sherlock Holmes e il mistero dell’uomo meccanico (Delos Books, collana Baker Street Collection), di Antonella Mecenero. Perciò, metto subito nero su bianco le impressioni che ho ricavato dalla lettura di questo gradevolissimo romanzo apocrifo. Come avrete già capito, il mio giudizio è ampiamente positivo. E questo mi conferma una sensazione che provo sempre più forte da un po’ di tempo a questa parte. Gli apocrifi italiani non sono i migliori del mondo ma ormai hanno raggiunto davvero un gran bel livello.

Il libro di Antonella Mecenero si legge senza intoppi di natura letteraria o di trama. La scrittura è piacevole e scorrevole, e senza troppi fronzoli ricrea molto bene la prosa wotsoniana. E la trama scorre fluida, lineare eppure capace di creare suspense.

I personaggi? Sherlock Holmes è lui: freddo, calcolatore, osservatore e deduttivo, geniale ma anche profondamente umano. Lo Sherlock che mi piace. E anche il buon dottor Watson è fedele al canone, ma qui il discorso merita qualche riga in più. Sono in sintonia con quanto afferma Alessandra Calanchi nell’introduzione: questo potrebbe quasi dirsi un romanzo su Watson. Perché qui il dottore ci racconta un’indagine di Sherlock Holmes (quella successiva a “Uno studio in rosso”) ma scrivendo il racconto ci parla diffusamente di sé. Dei suoi sentimenti, delle sue aspirazioni, dei suoi dolori e delle sue speranze. Ed è bellissimo che alla fine dell’avventura uno dei desideri più intimi di Watson finisca per incrociare quello, altrettanto intimo, di Sherlock Holmes. Non dirò più di questo per non “spoilerare”, come si dice ormai diffusamente, ma non perdete tempo a pensar male!

Ho trovato molto avvincente la trama, che ruota intorno ai disegni e ai progetti lasciati in eredità da Innocenzo Manzetti, ingegnere valdostano le cui intuizioni, liquidate frettolosamente come cose da circo, avevano anticipato, invece, molte delle scoperte tecnologiche ormai realizzate o pronte a essere realizzate – ma con la firma di altri – nel 1882, anno in cui l’avventura è ambientata. E, visto il contesto, è stato un piacere vedere agire i nostri eroi, nella parte conclusiva del libro, sul passo san Bernardo e nella città di Aosta, descritta in punta di penna.

Prima di chiudere, ancora due sottolineature, entrambe messe in luce anche dall’introduzione della Calanchi.

La prima riguarda la freddezza e il distacco con cui Sherlock Holmes giudica il matrimonio. In sostanza, dice, sposarsi è un errore, perché il matrimonio tarpa le ali al proprio ingegno e perché è nella famiglia che matura la gran parte delle azioni criminali. A proposito di quest’ultima affermazione, sembra quasi che il detective sia ancora in vita e stia commentando ciò che vede nei nostri Tg o che legge nei nostri quotidiani, ormai sempre più affollati di notizie di femminicidio o di figli uccisi insieme alla madre per gelosia o per vendetta (che poi, ce n’è testimonianza in diversi saggi, è quanto accadeva anche nell’Inghilterra vittoriana).

La seconda sottolineatura riguarda il bulldog di Watson. Il buon dottore ne aveva fatto cenno in Uno studio in rosso per poi non mostrarcelo mai più. Ebbene, dentro le pagine del romanzo c’è un’ottima spiegazione per chiarire questo mistero, ma anche in questo caso non voglio anticipare altro, altrimenti addio gusto della lettura.

Insomma, un bell’apocrifo, che vale assolutamente la pena di leggere.