Jeffery Deaver, nato nei sobborghi di Chicago, avvocato, giornalista legale, scrittore di incredibile successo.

I suoi libri, thriller mozzafiato, vengono comprati ogni anno da milioni e milioni di appassionati del “genere”.

Da Il collezonista di ossa è stato tratto un film campione di incassi in tutto il mondo. Sicuramente maestro del plot, sicuramente gioia e delizia di ogni editore… ma che altro? Quanto talento, vero talento, può celarsi dietro uno scrittore spesso snobbato dalla critica di un certo tipo e liquidato come scrittore di cassetta, ma seguito dalla moltitudine dei lettori? Con questo dubbio –e mille altri in mente- siamo andati a intervistarlo a Milano in occasione dell’uscita in Italia dell’ultimo libro con protagonista Lincoln Rhyme, La luna fredda. Scoprendo un gentiluomo d’altri tempi, con un’incredibile verve umoristica, amante del male… ma dal cuore tenero…

D-I Suoi “cattivi” sono dei personaggi molto affascinanti, si tende quasi a fare il tifo per loro, il che non è bellissimo...

R- Sì, è vero! I personaggi negativi dei miei libri sono la parte più divertente, per quanto mi riguarda, dal punto di vista della creazione. Tutti i miei libri sono imperniati sul concetto del male visto nelle sue diverse forme. Se uno scrive su un personaggio negativo utilizzando un concetto astratto del male, l’impatto del personaggio viene a mancare. Mentre è molto importante che il male si materializzi in una figura precisa, una figura nella quale tutte le persone si possano in qualche maniera identificare.

Stiamo calmi! Non sto dicendo che il lettore debba per forza aver fatto le stesse cose orribili che io faccio fare ai miei “cattivi”; dico solo che tutti i lettori devono poterci trovare qualcosa di riconoscibile, nei miei personaggi.

E in questo modo, provare emozioni forti.

D- Ok, le piacciono i cattivi. Anche a me, e in particolar modo, fra tutte le Sue creazioni, mi è piaciuto l’Orologiaio, protagonista di questo ultimo libro. A lei piacciono tutti  in egual misura, o ne preferisce qualcuno?

R- Sono due i miei personaggi preferiti. Uno, anche per me, è quello dell’Orologiaio. Per il semplice motivo che io stesso mi considero tale. Sono io quello che creo l’orologio del mio libro, che gli do

la carica. E questo perché i miei libri sono molto molto concentrati sulla trama e sul ritmo. Quello dell’Orologiaio è forse il tipo di male più inquietante e più profondo. Perché  è un personaggio che non ha il minimo senso della moralità. Gli manca completamente. E anche perché è un uomo molto freddo e distaccato.

L’altro cattivo al quale sono molto legato è il protagonista de “Il giardino delle belve”. Che è uno dei miei personaggi negativi più complessi.

Perché incorpora anche degli elementi positivi.

D- A proposito proprio de “Il giardino delle belve”, che se non sbaglio è uno dei Suoi romanzi non seriali, ambientato durante  la Seconda Guerra Mondiale e il periodo nazista… è vero che ha avuto un’accoglienza migliore in Europa che non negli Stati Uniti?

R- Sì, è vero, e credo che siano due i motivi che spiegano questa cosa che è successa. Da una parte in Europa, e in Italia in particolare, i lettori sono molto più aperti alle diversità. Apprezzano anche quando un autore si distacca un po’ dai cliché ai quali è abituato il lettore. La storia in generale viene accolta positivamente anche se non è il tipo di storia che ci si aspetta da quel determinato scrittore. Negli USA vogliono libri seriali, libri seriali, libri seriali…

Un altro motivo è che indubbiamente la Seconda guerra mondiale e il periodo nazista hanno avuto un impatto maggiore per l’Europa che non per gli USA.

D- E’ mai stato “accusato” in qualche modo di aver superato il confine della violenza tollerabile dai lettori, nei Suoi libri?

R- No, devo dire di no. Penso che nei miei libri più che violenza vera ci sia l’illusione della violenza. Non ci sono descrizioni “grafiche” ripugnanti o plateali. Faccio un punto d’onore di non mettere mai nei miei libri scene di violenza sessuale, o contro i bambini, o contro gli animali.

I deboli sono sacri per me, e lo sono tutti. Credo sia una precisa responsabilità dello scrittore dare al lettore un’esperienza quanto più catartica e perché no, anche divertente, ma che non arrivi mai a essere disgustosa.

D- Molti lettori si affezionano in modo incredibile ai suoi personaggi minori: per esempio, so che l’assistente personale di Lincoln, Thom, ha tantissimi ammiratori. E’ una cosa che l’ha sorpresa?

R- No, non mi ha sorpreso ma mi ha reso felice. Mi piace moltissimo inserire elementi che spiegano meglio il carattere di un personaggio minore. Man mano che andrò avanti nella serie spiegherò sempre meglio, rivelerò sempre maggiori dettagli. Uno degli aspetti più importanti dei thriller, e comunque dei romanzi di genere, soprattutto di quelli seriali, è il fatto che dopo un po’ di tempo che li frequentiamo, i vari personaggi diventano parte della nostra famiglia. Al punto che il lettore trae piacere dal trascorrere tempo con questa gente.

E questo, forse, ha anche a che fare con la classica domanda che tutti fanno al giorno d’oggi, sul perché i thriller al momento abbiano tanto successo. Secondo me è  perché la gente è talmente abituata a vivere con una serie di paure collettive e incombenti che l’idea di chiudersi in famiglia e di affrontare paure sulla carta assieme a personaggi familiari, gli dà un minimo di rassicurazione. Almeno, io me lo spiego così.

D- Lei è ormai un esperto di investigazione e “crime scene”. Le chiedono mai consigli relativamente a casi veramente accaduti, come succede in Italia con i giallisti? Che ormai vengono interpellati su qualunque fatto di sangue si verifichi…

R- Beh, sì, mi capita che mi vengano fatte delle domande. Mi viene in mente il caso di Jon Benet Ramsey, che ha destato parecchio scalpore in USA. Questa bambina reginetta di bellezza uccisa una decina di anni fa e per l’uccisione della quale i sospetti si erano concentrati sulla famiglia.

In casi come quelli, quando mi viene chiesto di dare un parere, nonostante io sia parecchio esperto di tecniche di polizia scientifica e di investigazione, tendo a non esprimere un parere molto chiaro. Perché la risoluzione di un delitto è un processo talmente complicato che, dall’esterno, solo disponendo di conoscenze teoriche, non si può realmente capire. Servono dati, dettagli, elementi che solo la Polizia ha in mano. Detto questo, però, sì. I giornalisti mi tormentano!

D- Nei Suoi libri la forza maggiore è costantemente nel plot narrativo. Ritmo incredibile, sempre. Ma in questo ultimo romanzo si nota molta attenzione alla psicologia, forse più che alle prove. Ci sono molti dubbi morali. E’ stata una cosa voluta? E’ l’inizio di un trend?

R- Sì, mi piace, è una buona osservazione! Io scrivo storie molto simili tra di loro. Lo so e lo ammetto. Storie nelle quali la trama ha un ruolo centrale. Ci sono miriadi di colpi di scena ma più o meno la costruzione è sempre  la stessa. Però mi sono accorto che i miei lettori apprezzano di più la storia se riescono a trovarci maggiore spessore umano. Quindi ne ho tenuto conto. Per esempio anche ne La dodicesima carta penso ci

sia profondità. Si parla di questione razziale, che è un problema che mi sta molto a cuore, per molti motivi. E miei lettori hanno apprezzato.

D- Ritroveremo ancora l’esperta di cinesica (studio delle comunicazioni mimiche… linguaggio del corpo, praticamente…NdR) che appare ne “La luna fredda”?

R- Oh sì, Kathrin… avrà un libro tutto suo, che dovrebbe uscire in Italia l’anno prossimo. Il titolo in americano è “Sleeping doll”, ancora in italiano non è stato deciso. Sarà ambientato nel Nord della California. Avrà anche  che fare con Charles Manson.

D- Non mi dirà che si è messo anche a studiare cinesica?

R- Certo che l’ho studiata, anzi la studio da anni, capisco tutto solamente osservando come una persona si muove… (Ride divertito, e mi minaccia… “hai paura??”)

 

D- (Meglio cambiare argomento…) Ambienterà in Nord California, quindi… realtà molto distante dalla New York di Lincoln Rhyme. Trova difficoltà nel cambiare?

R- No, non troppe. Anche perché ho vissuto in California per quasi vent’anni. Ho molte idee che possono trasformarsi in romanzi, e non tutte queste idee si adattano alla figura di Rhyme e alla mia amata New York, quindi devo un po’ fare posto ad altri e ad altri posti… Cercherò di alternarli un po’, i vari personaggi.

 

D- Una curiosità personale: è vero che ama in modo particolare Ray Bradbury e i suoi “racconti brevi”?

R- Sì, è vero. E’ un maestro, è irraggiungibile. E’ uno scrittore di fantascienza ma che non esagera mai con la tecnologia, con i dati, con le fredde statistiche. E’ passione. Le sue sono storie con al centro l’uomo e i suoi conflitti. Il coraggio. Elementi che travalicano il genere. Oggi spesso vediamo non solo nei libri, ma anche nei film di fantascienza, una sovrabbondanza di dati tecnologici tale che la storia viene un po’ a perdersi.  Invece nei “racconti brevi”c’è sempre l’uomo. Un po’ come in Edgar Allan Poe.

 

D- Altri che Le piacciono? Qualche consiglio di lettura.

R- Beh, non finiamo più… scherzo scherzo, sarò breve. Arthur Conan Doyle e Ian Fleming. Agatha Christie e John Le Carré. Ma siamo in Italia, no? Lasciami dire chi adoro tra gli italiani. Carlo Lucarelli, Andrea Camilleri e Gianrico Carofiglio. Bravissimi.

 

Traduzione dell’intervista a cura di Seba Pezzani.