Carte in tavola (Cards on the Table), di Agatha Christie Mallowan, 1936 – Arnoldo Mondadori Editore. Trad. di Grazia M. Griffini

La Christie scrive Carte in tavola nel 1936: dalla prima apparizione di Poirot (Poirot a Styles Court) sono passati sedici anni. L'idea che sta alla base – quattro investigatori alle prese con altrettanti presunti assassini – consente all'autrice di riportar sulle scene un pugno di comprimari già noti ai lettori: il sovrintendente Battle, il colonnello Race, la scrittrice Ariadne Oliver.

Questa, in sintesi, la storia. Invitati dal mefistofelico Shaitana, eccentrico gentiluomo dalle immense fortune, i quattro detective – Race è un ex funzionario dei servizi segreti, Battle un sovrintendente di polizia, Poirot un investigatore privato e la Oliver una scrittrice di gialli – partecipano a una cena. Oltre a loro, Shaitana ha esteso l'invito al dottor Roberts, alla signora Lorrimer, alla signorina Meredith e al maggiore Despard. Roberts è un medico alla moda, Lorrimer un'anziana gentildonna, Meredith una ragazza graziosa, Despard un maggiore dell'esercito.

Alla fine della serata, Shaitana – che durante il pasto ha accennato a un assassinio rimasto impunito insinuando d'aver i mezzi e l'opportunità di smascherarne l'autore – viene trovato cadavere nel suo angolino accanto al fuoco con uno stiletto conficcato nel petto.

Assorti nella partita a bridge gentilmente organizzata per loro dal padron di casa come svago postprandiale, gli otto invitati sembrano non essersi accorti di nulla. Ma l'ipotesi che l'assassino cui ha accennato Shaitana, presente alla cena, si sia messo in allarme e abbia voluto sopprimere l'anfitrione prima che questi parlasse sembra la più logica.

Appunto in questo senso intende procedere il sovrintendente Battle, scavando nel passato dei convitati alla ricerca d'un episodio delittuoso che non è stato riconosciuto come tale o di cui non si siano individuati i responsabili.

Esplicitamente incluso nell'indagine, Poirot sarà al suo fianco; mentre il colonnello Race s'occuperà, sempre dietro espressa preghiera del sovrintendente, di recuperar qualche informazione circa i molti anni trascorsi all'estero dal maggiore Despard.

Convocata da Battle con gli altri due per fare il punto dopo il delitto, la Oliver propone allora di spartirsi i presunti colpevoli: a Poirot spetterà la signora Lorrimer, a Battle il dottor Roberts, a Race il maggiore Despard. Lei s'occuperà della piccola Anne Meredith. E, benché il sovrintendente ovviamente rifiuti tale disinvolta limitazione del proprio campo d'azione e ricordi alla scrittrice che il proprio compito è quello d'indagar su tutti i presenti alla cena con delitto, alla fine il suggerimento della vulcanica Ariadne sarà, grosso modo, accolto. E i tre cominceranno a svolger qualche ricerca più o meno secondo le prede loro assegnate dalla Oliver: Poirot vs Lorrimer, Race vs Despard, Oliver vs Meredith.

Col dottor Roberts sostanzialmente vacante e tampinato a turno sia da Battle che dallo stesso Poirot: che anche lui naturalmente non ha alcuna intenzione di coltivar solo il ristretto campicello assegnatogli dall'amica e trotterella dall'uno all'altro dei sospetti con tranquilla metodicità.

Carte in tavola è un romanzo che presenta diversi spunti interessanti. Intanto il bridge e il modo in cui lo si gioca come rivelatori della personalità: il maggiore Despard cancella il conteggio man mano che il gioco va avanti per poter capire a colpo d'occhio a che punto è la partita, il dottor Roberts ha l'abitudine di far dichiarazioni azzardate e quasi sempre al di sopra delle sue possibilità, al contrario della Lorrimer che è corretta e precisa, quasi professionale.

Mentre la piccola Meredith ha paura d'esporsi troppo e quando ha finito il segnapunti gira il foglio e scrive anche sul rovescio: “È nata povera quindi, o ha un'innata tendenza al risparmio…” nell'accurata disamina di Poirot, che s'è tenuto i segnapunti di ciascuno e se ne serve per farsi un'idea degli invitati, in omaggio a un metodo psicologico apertamente sponsorizzato più volte nel corso del romanzo.

Presi in esame appunto dallo psicologo Poirot con la stessa appassionata dedizione riservata a ogni altro indizio, in questo romanzo compaiono poi i consueti interni agathiani minuziosamente delineati: i salottini sovraccarichi del collezionista Shaitana, il soggiorno ordinato e luminoso della Lorrimer, la casetta un po' precaria dove la piccola Meredith vive a spese dell'amica Rhoda, con le poltroncine traballanti e il giardinetto striminzito.

E ancora il soffocante salotto della terribile vedova Luxmore, oscuro passato del povero Despard (“…un locale alquanto buio che puzzava di fiori appassiti… C'era anche una quantità enorme di cuscini di seta dai colori sgargianti, tutti piuttosto sporchi. Le pareti erano verde smeraldo e il soffitto di finto rame”).

Tra l'altro in Carte in tavola gli interni svolgono una funzione doppiamente rivelatrice e indiziaria, rappresentando non soltanto il prevedibile specchio della personalità di chi l'ha più o meno amorevolmente messi su (in questo senso, anzi, per dirla con Sherlock Holmes è rivelatrice anche l'assenza d'interesse per un arredamento personalizzato: si vedano in proposito le riflessioni di Poirot sull'anonima casa di Rowena Drake ne La strage degli innocenti).

Ma nel proprio significativo allestimento gli arredi domestici si fanno ancora una volta strumento d'indagine nelle mani dell'analitico Poirot.

È lui, infatti, a farsi raccontar da ciascuno dei quattro indiziati ciò che ricordano del salottino dov'è stato ucciso Shaitana: basandosi su questi ricordi più o meno esaustivi per inquadrar meglio la personalità di ciascuno e, anche, per smascherarne l'eventuale tentativo di stornare i sospetti da sé.

Così ad esempio la Lorrimer ama moltissimo i fiori ed è in grado di dire con precisione che per quei piccoli tulipani in vaso nel salotto di Shaitana è incredibilmente presto; mentre nel caso della Meredith, che ha notato l'acqua stantia nel vaso di fiori ma non saprebbe dir di che fiori si tratti, è la dama di compagnia stipendiata a parlare. L'ottimo cacciatore Despard ricorda quasi solo i trofei di caccia; al contrario il dottor Roberts ha la memoria d'un banditore d'aste ma curiosamente non rammenta l'unico oggetto che Poirot ha in mente perché… perché forse non era lì (altra allusione a Holmes: “La strana storia di quel cane, di notte; il cane non aveva abbaiato quella notte. Non mi vergogno, qualche volta, di sfruttare i trucchi altrui!”).

Inoltre è questo uno dei romanzi in cui la personalità della Oliver, la scrittrice di gialli prolifica e distratta con cui la Christie ogni tanto si diverte a mettere in scena sé stessa, vien fuori con maggior nitidezza malgrado la sua iniziale inclusione nel gruppo d'investigatori appaia in fondo ingiustificata. Battle l'ha, sì, convocata assieme a Poirot e a Race subito dopo la scoperta del cadavere, ma il suo obbiettivo è assicurarsi la collaborazione in primis del belga, col quale ha già lavorato e di cui apprezza il metodo, e poi di Race.

La Oliver è un po' la frangia eccentrica di questa detective society e durante i primi abboccamenti coi presunti assassini si becca persino un perentorio invito a tener la bocca chiusa.

Comunque in Carte in tavola quest'alter ego della Christie (“…una donna simpatica, di mezz'età, dalla bellezza un po' trasandata, con gli occhi intelligenti, le spalle larghe e una folta chioma di capelli grigi ribelli con i quali continuava a sperimentare nuove pettinature…”) pronuncia forse il più esaustivo manifesto programmatico d'ogni altro romanzo che la veda protagonista.

Ammettendo e descrivendo con una certa dovizia di particolari non soltanto la sostanziale identità di molti degli intrecci escogitati, ma spingendosi persino a elencarne diversi: “…Quei due libri hanno esattamente la stessa trama… ma nessun altro se n'è accorto… Della precisione non me ne importa un fico secco!… Quello che importa, in fin dei conti, è un certo numero di cadaveri. Se la storia sta diventando un po' piatta e noiosa, non c'è di meglio di un po' di sangue per ravvivarla. Qualcuno sta per raccontare qualcosa… ed ecco che lo uccidono prima che ci riesca. È un sistema che funziona sempre alla perfezione… Ormai ho scritto trentadue romanzi… e, naturalmente, sono tutti uguali”.

E descrivendo l'ormai indissolubile rapporto che la lega all'investigatore da lei creato, il finlandese Sven Hjerson amante delle rape, con lo stesso insofferente rammarico più volte manifestato dalla Christie nei confronti del suo detective, il belga Poirot: “Se rimpiango una cosa… è che ho voluto che il mio investigatore fosse un finlandese. Non è che ne sappia molto, sui finlandesi! Tant'è vero che continuo a ricevere lettere dalla Finlandia di gente che mi fa notare qualcosa d'impossibile che ha detto o fatto il mio personaggio. Sembra che in Finlandia leggano un sacco di romanzi polizieschi… Invece in Bulgaria e Romania non sembra leggano affatto. Sarebbe stato meglio se avessi deciso che il mio investigatore fosse un bulgaro”.

Tra parentesi, di Sven il finlandese e delle sue insopportabili tendenze vegetariane la Oliver si lagnerà diffusamente anche in Fermate il boia (dove, coinvolta dal drammaturgo Robin Upward nella stesura d'una pièce ispirata all'investigatore, cercherà senza successo di tener fede alla propria creazione malgrado l'ormai radicata antipatia che la oppone al personaggio e il costante stravolgimento operato da Upward).

Inclusa, come già accennato, senza troppo entusiasmo nel gruppo di cervelli dall'arcigno Battle, la Oliver nel corso dell'indagine si renderà protagonista d'una personale rivincita: venendo a conoscenza quasi per caso – e per di più durante un rituale squisitamente femminile come il tè – d'una circostanza di fondamentale importanza sfuggita alle pur strettissime maglie investigative del sovrintendente e battendo sul tempo sia lui che lo stesso Poirot.

In Carte in tavola c'è poi la potenziale giovane assassina dall'aspetto grazioso e convenzionalmente ingenuo, secondo uno schema (bellezza/gioventù/malvagità) presente in diversi romanzi agathiani (Dieci piccoli indiani, Miss Marple al Bertram Hotel…). E come Amy Gibbs, la cameriera di Murder is Easy avvelenata da una tintura per cappelli ingerita al posto dello sciroppo per la tosse, in questo giallo della Christie se ne va per aver bevuto per sbaglio un bicchierone di tintura invece del prediletto sciroppo di fichi anche una delle vittime del passato su cui Battle e Poirot cercano d'investigare. Presente nel romanzo pure la consueta storia d'amore tra due dei protagonisti, il maggiore Despard e Rhoda, l'energica coinquilina della Meredith (che trent'anni dopo e ormai sposati compaiono anche in Un cavallo per la strega, 1961).

E ormai a sedici anni dalla sua prima apparizione Poirot è, naturalmente, Poirot: affabile, geniale, meticoloso e testardo, col suo atteggiamento profondamente borghese davanti al delitto e la tipica avversione per l'aria fresca. Imbattutosi nel detective per quello che lui crede un caso fortuito, l'atletico Despard non può far a meno di notare il sovietico abbigliamento scelto da Poirot, avviluppato in un pesante pastrano e col collo nascosto da una sciarpa; e di sorriderne tra sé. Senza immaginare che in questa particolare battuta è lui la preda e l'altro un cacciatore inesorabile e spietato: del resto, chi mai potrebbe credere una cosa del genere di quel buffo omino con la testa a uovo e i baffi impomatati?