“La signora era morta”

Roma. Maria Teresa Viti lavora come domestica presso l’abitazione del geometra Giovanni Fenaroli, nato ad Airuno (Cuneo) e titolare di una piccola impresa edilizia denominata Fenarolimpresa, e di sua moglie Maria Martirano, quarantasette anni, originaria della provincia di Lecce. I coniugi vivono in un appartamento al primo piano dello stabile sito in via Ernesto Monaci n. 21, nei pressi di piazza Bologna.

Giovanni Fenaroli e Maria Martirano
Giovanni Fenaroli e Maria Martirano

Giovedì 11 settembre 1958, verso le 8,30, la donna giunge al lavoro come ogni giorno. Suona il campanello e non riceve risposta. Allarmata, si rivolge al portiere e prende contatto con il fratello della Martirano, Luigi, che giunge in loco insieme a un amico, studente universitario e speleologo. Quest’ultimo, calandosi dal terrazzo dell’appartamento al piano superiore, riesce a introdursi in quello di Fenaroli attraverso la finestra della cucina. E proprio lì si imbatte nel corpo senza via di Maria Martirano. Sono circa le 10,30. Settimana Incom del 1° febbraio 1961: “Si dovette ricorrere allo speleologo Marcello Chimenti, che racconta: ‘Mi calai con una corda dal terzo piano nell’appartamento di Fenaroli. Arrivato all’altezza della finestra, vidi il corpo di una donna disteso in terra. Mi resi subito conto che la signora era morta.’”

Prima dell’arrivo della polizia, alle 11,30 circa, nell’appartamento si registra un via vai di condomini che, nella foga di guardare il cadavere e discettare su quanto accaduto, non si preoccupano certo di lasciare integro lo stato dei luoghi.

La scena del crimine

Il corpo di Maria Martirano è riverso su un fianco, in cucina. Assenti tracce di sangue e di colluttazione. Sul collo della donna, evidenti tracce di strozzamento e segni di unghie. In una delle due vasche del lavello, i resti di un pasto: piatti, posate, un bicchiere e una tazzina da caffè. Nella vasca accanto, un capello che non risulterà appartenere alla vittima.

Salotto: repertato un posacenere contenente sei mozziconi di sigaretta, cinque bianchi, della marca fumata dalla vittima e uno color avana, alla cui marca non si riesce a risalire.

Corridoio: sul pavimento recuperato un altro mozzicone delle sigarette fumate da Maria Martirano. Sembra sia caduto in terra mentre era acceso.

Camera da letto: ante dell’armadio aperte e, all’interno, tracce di rovistamento. In terra, borsette e documenti. Risulteranno rubati i gioielli della donna e la somma di 1.000.000 di lire in banconote da 10.000, suddivise in quattro buste.

Indagini

Le indagini sull’omicidio vengono affidate a Ugo Macera, capo della Squadra mobile, coadiuvato da Nicola Scirè. La prima ipotesi che ragionevolmente si delinea è quella dell’omicidio a scopo di rapina. Ipotesi che taluni ritengono però di dover escludere perché il misterioso intruso avrebbe trascurato di rubare una ulteriore somma di denaro, ben più ingente, anch’essa conservata nell’armadio della camera da letto. Forse, semplicemente, non ha avuto il tempo di frugare accuratamente prima di dileguarsi.

Una vicina di casa riferisce che la vittima avrebbe fatto entrare nel suo appartamento un uomo verso le ore 23, 20. Il che suscita delle perplessità perché, a quanto emerge dalle testimonianze, Maria era nota per la sua diffidenza, “per il rumore di serrature e chiavistelli che faceva sprangando la porta prima di andare a letto.”  Oltretutto, nei giorni precedenti l’omicidio, uno sconosciuto aveva già tentato di introdursi in casa Fenaroli ed era stato messo in fuga dalle urla della Martirano. 

L’esame autoptico individua nello stomaco della vittima i resti di cibo quasi interamente digerito. L’aggressione mortale può essere collocata più o meno all’una di notte.

L’alibi del marito

Il marito della vittima, Giovanni Fenaroli, si trova a Milano per impegni di lavoro, la sera del delitto ha cenato con degli amici. Informato del fatto, torna a Roma. Gli inquirenti lo interrogano, lui fornisce precisi dettagli del proprio alibi, riferisce anche di aver chiamato sua moglie verso le 23.

Le indagini accertano che la Fenarolimpresa ha seri problemi economici e che, a febbraio di quell’anno, il geometra avrebbe stipulato all’insaputa della moglie una polizza sulla vita di entrambi. In caso di morte di uno dei due, il coniuge superstite avrebbe riscosso 150 milioni di lire, una somma evidentemente assai cospicua all’epoca. Forse, un possibile movente per l’omicidio, ma certo l’alibi di Fenaroli risulta in quel momento inoppugnabile e, il 23 marzo 1958, il giudice istruttore respinge la richiesta di arresto dell’uomo, avanzata dalla polizia. 

Una testimonianza decisiva?

Le indagini, comunque, procedono. Il segretario dell’imprenditore, il ragioniere Egidio Sacchi, sembra avere importanti rivelazioni da riferire agli inquirenti. Il giorno del delitto, a suo dire, Fenaroli lo avrebbe incaricato di prenotare un posto sul volo Alitalia Milano-Roma delle ore 19,35 a nome di “Rossi”. La sera, in sua presenza, avrebbe poi telefonato a sua moglie per preannunciarle l’arrivo di una persona di sua fiducia, un certo Raoul, incaricato di ritirare della documentazione che intendeva sottrarre al fisco. Il misterioso Raoul risulterà essere il ventisettenne Raoul Ghiani, operaio elettrotecnico impiegato presso la ditta Vembi di Milano. E il ragionier Sacchi così conclude le sue dichiarazioni, rilasciate il 24 novembre 1958: “Fenaroli mi confessò il delitto […] aveva sei progetti per uccidere la moglie. […] Mi disse che portò lui Ghiani alla Malpensa. […] La mattina dopo Fenaroli era tranquillo.” 

Egidio Sacchi, il "supertestimone"
Egidio Sacchi, il "supertestimone"

Omicidio su commissione

Dunque, un delitto su commissione, eseguito da un sicario che Maria Martirano avrebbe lasciato entrare in casa su richiesta del marito. Non è dato sapere se, negli investigatori, siano insorti dubbi sulle dichiarazioni di Sacchi, tanto clamorose da risultare improbabili. Perché Fenaroli, impegnato nell’attuazione di un così elaborato disegno criminale, avrebbe dovuto condividere i sui intenti con il proprio segretario, che ha prontamente provveduto a riferirli?

E in quali circostanze Fenaroli avrebbe conosciuto Raoul Ghiani, riuscendo a convincerlo a commettere un omicidio su commissione? L’incontro sarebbe avvenuto, nella primavera del 1957, grazie a quello che i giornali battezzano il “terzo uomo”. Si tratta di Carlo Inzolia, fratello di Amalia, un tempo amante di Fenaroli. La donna, deceduta, aveva una figlia di nome Donatella, affidata proprio allo zio dopo la sua morte.

Secondo gli investigatori, Inzolia avrebbe quindi fatto da tramite tra l’imprenditore e l’operaio. E anche lui verrà arrestato, insieme a Fenaroli e Ghiani, il 26 novembre 1958.

Andata e ritorno

In tema di plausibilità, lo accennavamo, l’ipotesi del delitto commesso da Ghiani su incarico di Fenaroli – e compensato, si sostiene, con un milione di lire – sembrerebbe rivelare qualche criticità in quanto, il 10 settembre, il sicario avrebbe dovuto raggiungere l’aeroporto di Malpensa appena uscito dal lavoro, alle 18,30, volare fino a Roma e, alle 23,20, recarsi in via Monaci n. 21 (cfr. la testimonianza della vicina sullo sconosciuto visto entrare in casa Fenaroli), trattenersi in loco fino all’una di notte prima di strangolare Maria Martirano (cfr. le risultanze medicolegali sul momento del decesso) e fare ritorno in vagone letto a Milano – sul treno Freccia del Sud, partito dalla stazione Tiburtina e giunto a destinazione alle 11 della mattina successiva – in tempo per riprendere servizio presso la Vembi. Quel giorno, 11 settembre, tra le 9 e le 10,45, Ghiani – a Milano – risulta aver effettuato delle riparazioni già programmate ai sistemi di sicurezza di due banche, per poi tornare alla sede della ditta.

Persuasi comunque della colpevolezza di Ghiani, gli inquirenti cercano di dimostrare che, a bordo di un’auto veloce (l’Alfa Romeo di Fenaroli?) questi, dal luogo di lavoro, avrebbe effettivamente potuto raggiungere l’autostrada in un quarto d’ora e da lì, in mezz’ora, l’aeroporto di Malpensa per prendere il volo per Roma utilizzando il posto riservato da Fenaroli al signor “Rossi”. Si effettua un esperimento giudiziale in tal senso, con esito – si ritiene – positivo. Sembra, però, che gli investigatori, attorniati da giornalisti e fotografi, compiano il tragitto dalla ditta Vembi a Malpensa senza tener conto dei semafori rossi, degli stop e di tutte le altre prescrizioni del codice stradale al cui rispetto sono tenuti i comuni automobilisti.

Quanto alle risultanze testimoniali, i passeggeri del volo Milano-Roma, puntualmente interrogati, non riconoscono Ghiani. In compenso, dopo il delitto e dopo che la foto dell’elettrotecnico è stata pubblicata sui giornali, un viaggiatore della Freccia del Sud recupera memoria di aver parlato, durante il tragitto, proprio con il giovane. Altri passeggeri sostengono, invece, che il sospettato non fosse presente sul treno.

Nell’aprile 1960, diciassette mesi dopo il delitto, vengono recuperati i gioielli sottratti a Maria Martirano nel corso dell’aggressione omicida: si trovano alla Vembi, in un barattolo sulla postazione di lavoro di Ghiani, in passato più volte sottoposta a perquisizione con esito negativo. 

In aula

Nel 1961 inizia il processo nei confronti di Fenaroli, Ghiani e Inzolia, che non manca di destare profondo interesse nel pubblico, già in precedenza impegnato a seguire ogni fase e sviluppo delle indagini. Assistono alle udienze, tra gli altri, Vittorio De Sica e Anna Magnani.

“Fenaroli e Ghiani sono due colpevoli perfetti, la stampa li ha già condannati, il pubblico non li ama: Fenaroli è piccolo, torvo, sfuggente, e ha l’aria di un odioso traffichino. Ghiani si difende abulicamente, come farebbe un colpevole” , si legge in una recente rievocazione del caso, che restituisce il clima di allora.

Giovanni Fenaroli sul banco degli imputati
Giovanni Fenaroli sul banco degli imputati

“È difficile capire perché certi delitti si impongano alla pubblica opinione con una forza che sembra escludere ogni diverso interesse”, considera Giorgio Fattori sull’Europeo a ridosso dei fatti. “In fatto di raziocinio, il caso di Maria Martirano rappresenta un salto nettissimo: forse è la prima volta che il grande pubblico si appassiona a un delitto freddo, meticoloso, pianificato. Ciò che ha colpito di questa azione criminosa è l’intrigo, il vario e articolato complesso di mosse orientate verso un fine unico, l’architettura sapiente delle menzogne, delle precauzioni, degli alibi. per settimane, forese per mesi, un uomo ha messo insieme, pezzo a pezzo, un progetto che prevedeva un delitto su ordinazione, polizze assicurative, prenotazione di biglietti, spostamenti in aereo, telefonate, automobili velocissime, treni in perfetto orario: costui, si è osservato, passerà alla storia criminale come ‘il capostazione della morte’.” 

L’imprenditore accusato di essere il mandante del delitto è difeso dall’avvocato Francesco Carnelutti, uno dei più eminenti giuristi italiani.

Emergono elementi forse non edificanti: nel corso dell’inchiesta si era tra l’altro appurato che, nei primi anni Trenta, la Martirano era dedita alla prostituzione nelle cosiddette case chiuse. Sembra inoltre che il matrimonio con Fenaroli fosse essenzialmente di facciata e che l’uomo, sia pure per celia, avesse in più di una circostanza palesato il proposito di uccidere la moglie. Estratto di un confronto tra l’imputato ed Egidio Sacchi nel corso del processo: Fenaroli: “Sì, ti dissi di ucciderla con una iniezione, ma scherzavo.” Sacchi: “Non posso escludere che scherzassi.” Fenaroli: “È così, scherzavo.” Sacchi: “Dici che scherzavi e non lo escludo, e io stavo allo scherzo.” Fenaroli: “Non dicesti che, nei miei panni, avresti fatto lo stesso?” Sacchi: “No, amico, dissi che non ero maturo per l’uxoricidio.” 

Raoul Ghiani
Raoul Ghiani

La difesa sottolinea trentatré criticità negli assunti di controparte. Oltre a ribadire l’impossibilità di Ghiani di compiere il delitto secondo i tempi e le modalità prospettate dall’accusa, non manca di rimarcare l’assenza di un movente. È vero, la firma di Maria Martirano presente sulla polizza sulla vita è stata apposta da suo marito (“Certo”, aveva dichiarato del resto lo stesso Fenaroli, “una firma falsa; ma questo è normale, in affari, uno firma spesso, a nome della moglie”), i 150 milioni di risarcimento non sarebbero però stati pagati in caso di morte violenta dell’assicurata, dunque pianificare e attuare l’omicidio sarebbe risultato del tutto inutile.

L’avvocato Carnelutti, tra l’altro, lamenta che, nei documenti processuali, non sia presente la perizia sulle impronte digitali rinvenute sul mobilio della cucina di casa Fenaroli, poco distanti dal cadavere della Martirano.

L’11 giugno 1961 si conclude il processo di primo grado, circa ventimila persone attendono la sentenza fuori dal tribunale. Fenaroli e Ghiani vengono condannati all’ergastolo per omicidio, rapina e tentata truffa, Inzolia, assolto per insufficienza di prove. Alla lettura del verdetto, Ghiani, colto da malore, perde i sensi. Il 27 luglio 1963, la Corte d’Assise d’Appello di Roma ribadisce le condanne inflitte e riconosce Inzolia responsabile di complicità nel delitto, condannandolo a tredici anni di reclusione. Decisione in seguito confermata in Cassazione, il 7 luglio 1966. Fenaroli e Ghiani non smettono di ribadire la loro innocenza.

“Allora per la prima volta mi capitò di misurare la profondità nera dell’ergastolo”, commenta Dino Buzzati sul Correre della Sera. “Perché i soliti ergastolani, pastori sardi mafiosi siciliani avvelenatrici folli biechi uxoricidi, mi erano sempre risultati lontani come esemplari di una diversa razza mentre stavolta i condannati erano due della nostra vita quotidiana, due che incontriamo in banca o al ristorante, due del miracolo economico, due uomini più o meno di successo destinati a piccoli paradisi, idioti forse tuttavia venerati come miti, dell’umanità industriale. Perciò nel loro caso lo stacco tra libertà e galera mi riusciva quasi inconcepibile. Sì, lo so, tutto è dipeso da loro, se lo dovevano immaginare, un delitto così arido e turpe chiedeva il pagamento massimo, anche la sofferenza tuttavia del più abbietto criminale è sempre dolore e dinanzi all’angoscia dell’ergastolo ogni voglia di vendetta cade e si accende la pietà.” 

Dopo

Giovanni Fenaroli muore nel reparto urologico del Policlinico di Milano nel settembre 1975. Lo stesso anno, i difensori di Raoul Ghiani chiedono senza successo la revisione della sentenza, prospettando elementi acquisiti successivamente alla condanna, a loro avviso idonei a comprovare l’innocenza del loro assistito. Dopo il processo, Egidio Sacchi, il testimone risultato decisivo per le sorti del processo, ha fatto perdere le sue tracce trasferendosi in Argentina.

Scontati oltre vent’anni di carcere, prima sull’isola di Pianosa e in seguito al “Santa Teresa” di Firenze, nel gennaio 1981 Ghiani ottiene la semilibertà, per buona condotta e per motivi di salute. Riprenderà il vecchio lavoro di elettrotecnico e, all’inizio del 1984, riceverà la grazia dal presidente Pertini.

Ipotesi di complotto

La condanna sembra non tener conto del fatto che, nel delitto di via Monaci, permangono diversi elementi non chiariti. Questi, alcuni dei punti oscuri.

Una testimone afferma di riconoscere Ghiani nel soggetto che vede entrare in casa Fenaroli la notte del delitto. Le condizioni di visibilità non sembrerebbero essere tali da consentire una identificazione oltre ogni dubbio. E altre due testimoni riferiscono di aver osservato due uomini dileguarsi dalla scena del crimine.

Le impronte digitali recuperate nella cucina in cui è stato rivenuto il cadavere non sono attribuibili a Raoul Ghiani ma a un soggetto rimasto sconosciuto. Come non riconducibile all’elettrotecnico milanese risulta l’impronta repertata sul recipiente in cui sono stati trovati i gioielli della Martirano presso la ditta in cui l’uomo lavorava.

Come abbiamo visto, infine, l’impianto accusatorio, recepito nelle sentenze che hanno definito il giudizio, identifica in Raoul Ghiani il signor “Rossi” imbarcato sul volo Milano-Roma del 10 settembre 1958. Tre giorni dopo l’arresto del sospettato, un agente di polizia in forza alla Questura di Roma riceve l’ordine di recarsi a Milano per sequestrare presso l’Alitalia l’elenco dei passeggeri del volo in questione. Tale elenco non verrà allegato agli atti del processo. Recuperato in seguito, rivelerà contenere in effetti il nominativo “Rossi” che, a quanto risulta, non avrebbe celato il sicario di Fenaroli ma identificato l’ingegnere Wolfango Rossi, il cui posto era stato all’epoca dei fatti riservato proprio da Egidio Sacchi. L’uomo, tre settimane dopo l’omicidio Martirano, morirà in un incidente d’auto.

Alcuni giornali, tra cui il Candido di Giorgio Pisanò, evocano lo spettro del complotto. Uno scenario ipotizza che i coniugi Fenaroli abbiano posto in essere un ricatto ai danni dell’Italcasse (l’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane), con cui l’imprenditore era in affari. I due sarebbero venuti in possesso di documenti che potenzialmente compromettenti per la finanziaria, per l’Eni, per alcuni esponenti di spicco della Democrazia Cristiana e persino per le alte cariche dello Stato, tra cui lo stesso presidente Giovanni Gronchi.

Agenti del Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate, il servizio segreto miliare italiano attivo dal 1949 al 1966), avrebbero quindi ricevuto l’incarico di recuperare i documenti, se necessario ricorrendo all’omicidio. Con relativo depistaggio delle indagini, al fine di giungere agli esiti giudiziari effettivamente registratisi.

Un’inchiesta giornalistica degli anni Novanta  recepisce le rivelazioni del tenente colonnello Enrico De Grossi, ex funzionario del Sifar, che avvalorano tale scenario. Fenaroli avrebbe ottenuto i documenti compromettenti su cui fondare il ricatto da membri della Dc con cui era in contatto. E lo stesso Ghiani, nel corso di un’intervista concessa dopo il suo rilascio, riferisce di essere stato avvicinato da De Grossi: “Aveva rivelazioni da fare ma non aveva nessuna documentazione”, dichiara. 

Un esposto in Procura

Nel 1996, Ghiani presenta un esposto alla Procura di Roma perché riapra il caso. Nell’atto si ribadisce, tra l’altro: “Secondo De Grossi, fonte di primissima mano per la sua qualità di agente dei servizi segreti, Fenaroli era a stretto contatto con le autorità politiche del tempo, legato da saldi vincoli con un potente sottosegretario, dal cui ufficio sarebbe riuscito a sottrarre documenti con la prova di affari compromettenti per l’allora presidente Giovanni Gronchi, venutosi a trovare al centro di illeciti finanziamenti. Finanziamenti in nero provenienti dall’Eni di Enrico Mattei e dall’Italcasse.” 

È davvero questa la prospettiva interpretativa attraverso cui rileggere il delitto di via Monaci? Si tratta di un crimine maturato in ambito familiare, pur sottendendo interessi economici, o siamo in presenza dell’ennesimo “mistero italiano” senza fondo, che puntualmente cela una regia occulta e si colloca in quella zona oscura in cui convergono politici corrotti, concentrazioni di interessi economici, documenti compromettenti, servizi segreti deviati, faccendieri e ricattatori? Sotto questo aspetto, potrebbe rappresentare una vicenda emblematica delle dinamiche politico-economico-poliziesche che per decenni hanno percorso il nostro Paese come un torbido e insondabile fiume sotterraneo.

Il delitto di via Monaci al cinema e in televisione

Il caso ha comprensibilmente offerto spunti per produzioni cinematografiche e televisive. Ad esso sembra, sotto alcuni aspetti, ispirarsi Il vedovo diretto da Dino Risi nel 1959 con Alberto Sordi nei panni di un industriale in dissesto economico che pianifica l’omicidio della moglie, interpretata da Franca Valeri, per ereditarne il patrimonio.

Alberto Sordi e Franca Valeri nel film "Il vedovo", che rilegge nei modi della commedia satirica certi aspetti del caso Fenaroli
Alberto Sordi e Franca Valeri nel film "Il vedovo", che rilegge nei modi della commedia satirica certi aspetti del caso Fenaroli

Echi del processo a Fenaroli, Ghiani e Inzolia si percepiscono in Testimone volontario, episodio de I mostri, pellicola del 1963 sempre diretta da Dino Risi, con Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman.

Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi in "Testimone volontario", episodio del film "I mostri"
Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi in "Testimone volontario", episodio del film "I mostri"

La vicenda viene, infine, ricostruita in un film televisivo del 1996, Il caso Fenaroli, regia di Gianpaolo Tescari, con Felice Andreasi, Franco Castellano, Silvia Rossi e Walter Toschi.

Riferimenti

A. Accorsi, M. Centini, I grandi delitti italiani risolti o irrisolti, Newton Compton, Roma, 2005.

C. Armati, Y. Selvetella, Roma criminale, Newton Compton, Roma, 2005.

D. Buzzati, “Fantasma al bar”, Il Corriere della Sera, 3 agosto 1963.

G. Fattori, “Il pubblico si appassiona per un delitto freddo”, L’Europeo. Cinquant’anni di gialli. La grande cronaca nera da Rina Fort al caso Marta Russo, Rcs Periodici, Milano, 2001.

A. Padellaro, Non aprite agli assassini. Il caso Fenaroli e i misteri italiani, Baldini e Castoldi, Milano, 1995.

Ansa, 14 ottobre 1996.

Il Giornale, 25 maggio 1995.

L’Europeo, 17, 26 aprile 1959.