Le Olimpiadi di scacchi che si sono svolte quest’anno a Torino hanno offerto uno spettacolo entusiasmante per il numero di paesi coinvolti e l’eccezionale forza dei contendenti. Maschi e femmine. Tutti carini e sorridenti, gentili ed amabili prima della stretta di mano che segna l’inizio della partita. Poi tutti incarogniti davanti alla scacchiera per cercare di vincere, di “fare fuori” letteralmente l’avversario. Sì, perché questo “nobil giuoco” ha in definitiva ben poco di nobile. Solo l’aggettivo che fa da paravento ad un istinto di sopraffazione primordiale. Gli scacchi sono lotta, diceva il secondo campione del mondo Emanuel Lasker. Lotta dura, senza tregua e senza scampo. Per vincere occorre “mattare” il Re, colpirlo, distruggerlo. Anche se molte partite terminano prima per non assistere a questo traumatico evento. Il Re, in definitiva, rappresenta il nemico che ti sta di fronte e ti vuole a sua volta morto e sepolto. E non solo in senso figurato. Qualcuno dirà che sto esagerando. E’ vero, ma mica tanto. Si

Fabio Lotti, autore dell'articolo
Fabio Lotti, autore dell'articolo
dice che Baldwin, figlio di Ogier il danese, uccidesse Charlot, il figlio di Carlo Magno, spaccandogli la testa con la scacchiera perché era stufo di perdere e che il figlio di Pipino il Breve per una sconfitta a scacchi con un nobile bavarese lo abbia soffocato ficcandogli in gola una torre. Forse sono leggende ma quello che faceva Voltaire, l’illuminista francese, è pura verità. Se perdeva con suo padre gli tirava i pezzi e lo prendeva a bastonate. In un torneo degli anni settanta disputato in Toscana un giocatore alzò la mano per catturare

la Regina. L’avversario gliela prese quando era ancora per aria e gli dette un morso. L’episodio fa ridere ma anche pensare.

La regina del giallo Agatha Christie fu una delle prima a capire cosa succede nell’animo tormentato degli scacchisti. In Poirot e i quattro fa usare all’omicida un pezzo degli scacchi per uccidere il suo avversario. L’Alfiere di Re del Bianco è attraversato da un elettrodo e il circuito elettrico si chiude nella casa b5, così quando il suo conduttore  sposta l’Alfiere proprio in quella casa, come è solito fare, viene fulminato e muore di paralisi cardiaca. Idea affascinante, talmente affascinante che è stata poi ripresa pari pari da Roberto Berna in L’avventura del vice-campione mondiale di scacchi, il Giallo Mondadori 1962, ripubblicato nel 1986 con la piccola variante della scossa elettrica che si becca, questa volta, nella casa b4, e da Roberto Gravina in Eterodelitto (si copia dappertutto!) dove l’omicidio avviene attraverso un metodo ancor più subdolo e sottile. Con un vermicida liquido e trasparente l’assassino ricopre l’Alfiere nero che serve per uccidere, non un antipatico avversario ma evidentemente una ancor più antipatica mogliera. In questo caso, però, il colpevole non viene scoperto e il Bishop è posto in una piccola vetrina a perenne memoria del sublime misfatto. E a proposito di Alfiere esso è lo pseudonimo usato da un maniaco per una serie di delitti in L’enigma dell’Alfiere del celebre aristocratico investigatore Philo Vance, interpretato magistralmente, ai suoi tempi, alla televisione da Giorgio Albertazzi. Questo elemento del rapporto scacchi-crimine si ritrova anche in Scacco al Re per Nero, Wolfe di Rex Stout (perfino nel titolo e nella copertina dove è ritratto un serafico Wolfe che tiene un Cavallo nero nella mano sinistra)  interpretato, sempre magistralmente e sempre ai suoi tempi, dall’indimenticabile Tino Buazzelli, e ne La mossa del Cavallo del noto Andrea Camilleri l’ispettore capo Giovanni Bovara (e non il solito Montalbano) pensa alla mossa di questo pezzo degli scacchi per saltare ed evitare le trappole tesegli dagli avversari.

Spesso sono gli stessi personaggi che hanno il pallino di Re e Regine. Philip Marlowe, il popolare investigatore creato da Raymond Chandler, le cui opere hanno avuto l’onore di essere pubblicate sui prestigiosi Meridiani della Mondadori, si diletta a ricostruire partite di scacchi tratte da un testo pubblicato a Lipsia, mentre Van Veeteren, commissario svedese di Hskan Nesser che ricorda per certi aspetti il più noto Maigret, è un vero appassionato del nobil giuoco. Giorgio Scerbanenco in Venere privata, grazie anche agli scacchi riesce a dipingere Livia Ussaro, l’esca utilizzata per incastrare i responsabili degli omicidi, come una donna tutt’altro che passiva ed estremamente interessante nel suo ruolo di “adescatrice non professionista”. Il vedere una scacchiera “la riportava al tempo del collegio, delle suore di cui ricordava solo il passo frusciante per le camerate, delle mattine buie d’inverno nella gelida chiesa, con la messa che le sembrava eterna, combattuta tra il sonno ancora imperioso e la fame nascente, e la ricreazione in sala nei giorni piovosi, con le gare di “bella lettura”, di ricamo, di dama, di scacchi, perché dovevano essere suore sportive, di spirito agonistico. E per questo ricordo l’unica cosa decente in quell’indecente luogo era quell’astratto geometrico oggetto con quei simbolici pezzi di legno”.

In Una stanza per morirci di Ellery Queen, pseudonimo usato dai cugini Manfred B.Lee e Frederic Dannay, il giallo ruota attorno ad un delitto commesso all’interno di una camera chiusa (la corona di questo genere credo vada assegnata a John Dicknson Carr, che ha scritto addirittura una “Classificazione dei delitti in una camera chiusa) dove i protagonisti si giocano in una partita a scacchi l’ipoteca della casa. Insomma scacchiera e pezzi si introducono  con facilità irrisoria e con intenti diversi nel mondo del mystery in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Anche al tempo dei romani. Nel romanzo Cui prodest? della nota scrittrice Danila Comastri Montanari (ha un bel sito in internet) un serial killer uccide giovani schiavi lasciando come firma un pezzo dei latruncoli, l’antico gioco degli scacchi romano. Qualche volta sono i pezzi stessi a denunciare il colpevole. Come avviene, per esempio, in Assassinio alla scacchiera di Alessandro Cuppini dove l’allineamento dei pezzi sulla scacchiera: Cavallo, Alfiere, Re, Torre, e Alfiere indicano il cognome Carta dell’omicida. Il rapporto tra scacchi e crimine è perfettamente rappresentato, seppure in un contesto fantascientifico, da Scacco alla Regina di Jean.M.Janes