Premessa

In una Torino sommersa dalla neve, in casa di Gregorio Cavaliere, i parenti di una vita si riunivano durante quel sabato di vigilia natalizia.

Erano anni che non si vedevano: c’era il cugino Emilio, emigrato all’estero, che era diventato ricchissimo vendendo computers; c’era la zia Clotilde, che trent’anni prima si era sposata con un giapponese dirigente della Mistica (e infatti una cosa che non mancava mai a casa sua era una macchina fotografica, giacchè ne aveva più di un magazzino specializzato) e da poco era rimasta vedova, con la retina che tratteneva l’acconciatura anni ’30, con le sue figliole, “i suoi gioielli” come soleva dire a chi non le conosceva nell’intimità e non sapeva che vipere fossero; c’era lo zio Gioan, non torinese ma bergamasco, che aveva sposato in terze nozze la Zia Letizia, con una gran faccia da beone, rubizzo e felice, la pappagorgia e un’espressione sempre a metà  tra l’oste e l’avventore compiaciuto dopo un lauto pranzo; poi c’erano gli zii Franco e Adelina, che poi avevano preparato tutto, dal maigret d’anatra all’arrosto.

In verità quello che zia Adelina aveva portato per il cenone della Vigilia era il patè di fegato d’anatra e il maigret, mentre la cugina Ambrogina si era cimentata con successo, a giudicare dallo stuzzicante profumo che permeava il corridoio e le stanze adiacenti, di quella casa affacciata su piazza Roma, nel suo cavallo di battaglia: l’arrosto di tacchino farcito. Era un piatto che preparava nelle grandi occasioni, e quale migliore occasione sarebbe potuta essere la Vigilia di Natale? “Certamente quella sera qualcuno sarebbe morto di indigestione, dopo aver assaggiato quel cimento”, era il giudizio che serpeggiava tra i convitati; quello che nessuno avrebbe immaginato è che davvero qualcuno quella sera sarebbe passato a miglior vita, ma non per il tacchino farcito della cugina Ambrogina. Che però davvero era una prelibatezza, ma anche una bastonata alla cistifellea: innanzitutto il tacchino, un bestione di quattro-cinque chili, era ricoperto da una quantità impressionante di fette di lardo come primo strato, poi da fette di lardo pancettato come secondo, su cui era stato disperso con troppa generosità pepe bianco, da poco macinato. Per di più, come se non fosse bastato il trattamento già descritto, la Zia Ambrogina l’aveva riempito di un ripieno di castagne e cognac, e poi il tutto a rosolare nell’ampio forno a legna, del forno sotto casa; cosicché, a casa Cavaliere, era arrivato già bello e rosolato, ancora caldo ma non bollente.

La zia Ambrogina lo stava disponendo nel piatto di portata, una sperlunga che probabilmente  era una delle poche stoviglie appartenute al gigante Golia, a giudicare dalla sua grandezza. E tutt’intorno un contorno di prugne, cotte nel cognac.

Veramente l’arrosto non sarebbe stata la terza delle portate di quella sera, perché una delle figliole della zia Clotilde, la Mariannina, annunciò che lei, e non la sorella, aveva fatto “di sua mano” settantadue cappelletti come Dio comanda” che, in ragione di otto per commensale, affondato in un brodo d’anatra, avrebbero preparato il fegato dei commensali, già spossato, alla sua morte, con l’arrosto di tacchino.

 

Quella sera in un’atmosfera ridanciana, di allegria manifesta, si agitavano segrete avversioni: dietro i sorrisi di maniera, seduto a quel tavolo lungo due metri, qualcuno stava aspettando il momento opportuno. C’era l’eredità della nonna Giuseppina stimata in 3 miliardi delle vecchie lire, a costituire un più che valido motivo a quelle segrete pulsioni, a quei desideri mai tanto falsamente celati di una ricchezza sfrontata: perché lavorare tutta la vita, quando si sarebbe potuta comprare una Porsche Carrera con quei centocinquantamila euro che sarebbero piovuti dal cielo, di lì a dieci giorni, pensava lo zio Gioan; perché non utilizzare quei soldi per farsi una casa, evitando un assassino mutuo ipotecario, pensava la zia Clotilde; perché quell’antipatica della Mariannina avrebbe dovuto ricevere quei soldi che avrebbe sicuramente dilapidato coi suoi amici con il pepe al naso, mentre lei, la sorella Carla, li avrebbe spesi per farsi una pensione di indennità che l’avrebbe messa al riparo da chissà quali tonfi azionari, tipo quello dei Bond argentini, in cui era incappato il cugino dei computers, anche se, straricco com’era, ben presto aveva risollevato la situazione, acquistando una Ferrari Testarossa, con cui aveva attirato gli sguardi concupiscenti dei risparmiatori traditi, che volentieri gli avevano rivolto i loro auguri non troppo benevoli.