Dopotutto la scrittura, ancor prima di essere arte, è un mestiere artigianale, non potremmo rendere bene se utilizzassimo uno strumento che per noi è sbagliato. Allora forse sarebbe preferibile recepire da ogni autore che abbiamo amato determinati insegnamenti e trasformarli, unirli, emulsionarli, reinventarli creando a nostra volta una cifra stilistica vera e propria, tutta nostra?

Il problema cui fai cenno si pone, ma in una fase avanzata del mestiere. Quando si cominciano ad avere rapporti continuativi con il “mercato” e può porsi effettivamente l’esigenza di dover scegliere in maggiore sintonia con gli umori del pubblico. Poiché però il successo arride ai libri più diversi, è pericoloso saltellare da uno scrittore all’altro sulla base degli umori del momento. È comunque sempre una pratica rischiosa, la ricorsa al best seller del momento non riesce quasi mai. Lo stile personale scaturisce sempre da un amalgama tra una grande lezione e i nostri tentativi mal riusciti di emularla. Ma che proprio perché sono necessariamente mal riusciti danno vita a qualcosa di originale. Ti faccio un esempio semplice: Dante affronta la scrittura poetica con il desiderio di “rifare” Virgilio. In parte lo rifà effettivamente, versi, personaggi e intere situazioni della Commedia sono calchi espliciti dell’Eneide. Ma non essendo ovviamente Virgilio deve comunque metterci qualcosa di diverso: questo qualcosa è appunto la radice del “suo” stile. A poco a poco questo valore aggiunto cresce, fino a sovrapporsi al maestro e diventare compiutamente originale. Naturalmente il lettore esperto continua a notare l’ombra di Virgilio dietro la sua opera, ma quella presenza non è più una pecca, ma anzi la precisa cifra stilistica che rende Dante uno dei tre o quattro massimi poeti di ogni tempo. C’è sempre “qualcun altro” dietro quello che facciamo: l’importante è che questo qualcun altro stia dietro le nostre spalle come fonte d’ispirazione e non davanti come un modello irraggiungibile.

Una delle fasi più delicate nel processo di genesi è forse quella della creazione di un personaggio che non sia uguale a nessun altro ma che, al tempo stesso, non sia troppo eccentrico o sopra le righe al punto di non sembrare vero. Poiché il primo requisito di una narrativa efficace è proprio la credibilità. Oppure no?

Certo, una narrazione dovrebbe sempre essere “vera”. E quindi credibile. Ma il concetto stesso di credibilità non ha un fondamento oggettivo. Visto dall’ufficio di un funzionario dell’anagrafe madame Bovary è sicuramente più credibile di Pinocchio. Ma in termini estetici Pinocchio è meno credibile dell’eroina di Flaubert? Assolutamente no. E don Chisciotte, il barone di Munchausen? Il genio della lampada di Aladino è meno credibile di mastro don Gesualdo? Rifletti un istante su questo: chi sembra più vero, Escher o Annigoni? Se ti serve un ritratto per il passaporto ovviamente il secondo. Ma se ti interroghi sulla complessità del mondo, se vuoi trasmettere il senso di angoscia e di spaesamento che nasce dalla scoperta dell’indecidibilità dell’esistenza, allora è piuttosto il primo il grande “fotografo” della realtà. Se tra centomila anni i posteri volessero ricostruire i sentimenti dell’uomo del ventesimo secolo, e potessero scegliere un solo libro, per loro sarebbe più utile “Furore” di Steinbeck o il “Processo” di Kafka? Il primo, se vogliono farsi un’idea delle condizioni di vita dei membri di una particolare classe sociale, in una specifica parte del mondo, valida per l’arco di una decina d’anni. Ma se vuoi sperare di capire il perché di due guerre spaventose, lo sterminio di interi popoli, la bomba atomica allora è la follia burocratica del secondo che può svelarti molto di più.

Una volta messo a punto il personaggio, un’altra componente fondamentale di una narrativa di buona qualità è quella dello sfondo, anche questa una questione delicata. Come la pensi su questo? Conta più la storia, la validità del personaggio, o l’atmosfera di sfondo? Oppure sono tre fattori imprescindibili che non vanno trascurati mai?

Sono tre elementi sempre presenti, senza anche uno solo di loro non c’è narrazione. Da un punto di vista tecnico, specie per chi inizia, direi che sia la storia la locomotiva che tira tutto il trenino. Una grande storia con personaggi anche deboli o solo abbozzati, poco più che maschere, può ancora reggere. Di contro, un grande personaggio senza storia è poco più che uno studio psicologico. Un esercizio di stile. In “Dieci piccoli indiani” i personaggi sono fumettistici, l’ambientazione poco più che una quinta teatrale. Ma la storia, pur nella sua semplicità strutturale è un piccolo capolavoro d’ingegneria narrativa. Ma questo da un punto di vista pragmatico: personalmente sono convinto che sia però l’atmosfera di sfondo quel quid impalpabile che trasforma un buon romanzo in un romanzo memorabile. “Dieci piccoli indiani” avrebbe potuto tranquillamente scriverlo anche Ellery Queen o S.S. Van Dine, e sarebbe stato lo stesso. “Quinta colonna” di Greene no, quello poteva scriverlo, così, soltanto Greene, la “sua” atmosfera è inconfondibile.