La Roma proposta allo spettatore è un luogo inventato. Le auto che vi si aggirano sembrano persino fuori luogo. È tutta scalinate, e quartieri che hanno conservato un aspetto ottocentesco. Interni oscuri, locande che non esistono. Un luogo di magia dal quale sono lontanissime via veneto e la “Dolce Vita”. Alla fine un po’ come gli anglosassoni vorrebbero immaginarsela. Non è lontana l’influenza di Mario Bava, soprattutto ne La ragazza che sapeva troppo. Il mistero, la coincidenza, l’arcano in agguato avvolgono subito il povero Foster che da un lato è ammaliato e dall’altro perde la pazienza, diventa a volte aggressivo perché si sente meccanismo e, come tutti i meccanismi, non ha una visione chiara del complesso marchingegno che lo circonda.Seppure presenze come quella della disinibita Oliva e del suo compagno Sullivan, ambiguo trafficante di opere d’arte, suggeriscano la possibilità di una trama criminale, così come la scomparsa e il ritrovamento dei preziosi appunti di Foster, il mistero è giocato principalmente su suggestioni gotiche e paranormali. Lucia, modella “fuori tempo” del pittore Tagliaferri - che dai ritratti assomiglia incredibilmente a Foster ed è nato il suo stesso giorno cento anni prima e morto il 28 di marzo, data fissata per la conferenza byronina - precipitano sempre più il protagonista in una paranoia sovrannaturale in cui gli elementi d’indagine si fanno più deboli rispetto a quelli esoterici. Scopriamo così una catena di morti reincarnati che risale a Ilario Brandani, negromante e orafo, autore di un misterioso manufatto che Lucia porta al collo. Tutti questi personaggi sono nati e morti nello stesso giorno a distanza di cento anni. E così Foster si ritiene, o qualcuno vuole spingerlo in tal senso, a ritenersi condannato.Entrano poi in scena altri personaggi. La signora Gianelli (una splendida Silvia Monelli) che si rivelerà lei stessa una medium ma anche direttrice della pensione Galba consigliata a Foster da Lucia che però la Gianelli nega di conoscere. Il discendente di Tagliaferri e sua nipote personaggi legati a un sottile filo di suggestioni al mondo della magia. E poi anche al principe Anchisi - un Franco Volpi quanto mai in parte - sovrano di un decadente impero di cimeli artistici nel quale si aggira, ancora una volta, il fantasma di Lucia, la fanciulla che, secondo la tradizione, è il fantasma della modella di Tagliaferri e che, se vita, condanna a morte lo sventurato entro la fine del mese.Ben si capisce perché Foster perda la calma, tenti anche di fuggire ma, alla fine, rimanga intrappolato dal desiderio di scoprire qualcosa di più sulla macchinazione. Perché questa, reale o meno, esiste ed è la chiave di un mistero abilmente giocato tra indizi reali e suggestioni, accadimenti che si allacciano gli uni agli altri senza lasciare troppo tempo allo spettatore per esaminare con criticità la verosimiglianza della vicenda.       

Forse nella seconda metà dello sceneggiato (che è diviso in cinque puntate) qualche scena onirica di troppo rischia di distogliere l’attenzione dal cappio di angoscia che si stringe sempre più attorno al protagonista con l’avvicinarsi della data della conferenza fissata proprio per il 28 marzo, giorno del suo compleanno e ricorrenza della morte di Brandani e Tagliaferri. Poi la vicenda subisce varie impennate. Compaiono con più chiarezza i contorni del meccanismo thriller e, sicuramente, Olivia e Sullivan acquistano un maggiore spessore, soprattutto con la loro dipartita che sembra in entrambi i casi “incidentale” ma forse non lo è.

S’inserisce la figura di un altro occultista, un musico questa volta Baldassarre Vitali nella cui metrica del XVII salmo maledetto viene riportata la chiave per trovare la famosa piazza citata da Byron. Le frasi, i versi attribuiti al celebre poeta inglese appartengono, come è ovvio, a un diario inedito che, nella realtà non esiste ma è perfettamente funzionale alla vicenda e alla possibilità di creare quella patina di “verosimiglianza culturale” necessaria per affascinare lo spettatore.

Letteratura, scultura, musica diventano allora codici allegorici al servizio dell’occultismo, espediente, se vogliamo riutilizzato anche da Dan Brown nel Codice Da Vinci e nei suoi seguiti. Un ponte, se me lo permettete, tra fantastico e cultura ufficiale sempre efficace, soprattutto per chi quelle materie le ha studiate poco e di malavoglia ai tempi della scuola. Un modo per dire che dietro i libroni e i professori paludati può esserci sempre qualcosa di intrigante e misterioso.