Rita Guardascione, originaria di Monte di Procida, in provincia di Napoli, amante del teatro e delle fiabe, pubblica Il lago rapito (Homoscrivens, 2003), la filastrocca La particella Universale (2005) e nel 2006 vince il concorso internazionale Una poesia per l’Alzheimer con il racconto L’assenza. Poi esce sul mercato editoriale con il romanzo Donna con due ombre edito, nuovamente, da Homoscrivens.

La storia del suo ultimo libro è quella di Micol, che conduce una vita apparentemente normale. Ha trentacinque anni e si muove in una Napoli affascinante e contraddittoria, che fa da sfondo alle sue vicende e a quelle degli altri personaggi.

Pur essendo un’affermata psicoanalista conduce una doppia vita, celando a tutti il suo impenetrabile ruolo di killer. Un’arma di morte mirata e precisa che lavora alle dipendenze di un uomo potente e spietato, Mario Alain.

Una fitta rete di personaggi si intersecano in questa doppia esistenza, palesandosi a poco a poco per quello che realmente sono: pedine di un gioco lucido e crudele, architettato dal boss per consolidare il suo potere

Rita, quali elementi hanno fatto sì che il tuo romanzo sia stato inserito nel genere thriller e spy-story?

Il romanzo include alcune caratterizzazioni tipiche di entrambe i generi, come la dualità, il ricatto e il doppio gioco. Inoltre evidenzia lo sforzo, della protagonista, di sopravvivere, elemento che coinvolge il lettore nel’evoluzione fino alla risoluzione finale.  

Come ho detto spesso, desideravo scrivere semplicemente un romanzo, e tale lo definirei, ma come ogni prodotto ha subito la necessità di un’identificazione, pertanto è stato necessario definirlo di genere. Collocazione necessaria soprattutto nelle fasi della promozione.

Parliamo del titolo“Donna con due ombre”: il tema della dualità ritorna in tutte le pagine del libro?

Il titolo evidenzia il concetto di dualismo, ma questo principio è l’anima dell’intera storia, caratterizza soprattutto la protagonista perché simboleggia una componente costante della sua esistenza, sin dalla nascita.

La carica del dualismo sta nella sua stessa natura, nel suo essere complementare o contrapposto perciò l’ho ritenuto determinante per evolvere il personaggio Micol e, necessario, per descrivere gli scenari nei quali lei si muove.  Quando sceglie di diventare una killer lo fa non solo mossa da una motivazione molto intima, ma anche dalla determinazione e della chiara consapevolezza di sé. Diventare un’affermata psicoanalista è la dimostrazione e il mezzo con cui riesce a sopravvivere vestendo e gestendo con lucidità entrambi i ruoli.

Senza ‘spoilerare’, a livello di suspense quali potrebbero essere i turning points principali attraverso cui si dipana la storia?

Quelli che riguardano la protagonista e che, in alcuni casi coincidono anche con quelli di altri personaggi.

Il primo è sicuramente il momento in cui Micol incontra suo zio, Mario Alain, e sceglie di imbracciare una pistola. Altro è sicuramente la somma di quelle circostanze che convergono e la inducono a maturare la  cruciale decisione finale. Un palese esempio sono le rivelazioni di Jessica, sua giovane paziente, che, durante la terapia, le parla del suo quartiere e involontariamente le fornisce i tasselli di una realtà e familiarità che la protagonista ignora.

Potremmo usare tre aggettivi per descrivere i personaggi femminili principali?

Oltre a Micol, la protagonista, sono due le figure femminili prevalenti, Livia la sua migliore amica e Jessica un’adolescente sua paziente.  Di ciascuna narro le proprie caratteristiche e sfumature d’animo che non sembrano avere alcuna similitudine.

Se nella protagonista prevale la caparbietà, in Livia evidenzio la lealtà e in Jessica il tormento.

Eppure, come tante donne che sembrano somigliare solo a se stesse e che poi svelandosi si scopre quella speciale caratteristica che le accomuna, anche loro possiedono il tratto che combacia perfettamente con quello delle altre.  In questo caso ho voluto fosse la determinazione.

Dei personaggi maschili a cui hai dato vita, invece, cosa puoi dirci?

Nel mio romanzo le figure maschili sono molto presenti.  C’è il puro, come il papà della protagonista e c’è il malvagio. C’è colui che serve un padrone per il denaro e chi non cede al ricatto conservando la dignità, c’è chi, impiegando tutto il tempo della narrazione, svolta e invece il personaggio che rimane intrappolato nel ruolo di vittima.

Ci sono uomini con ruoli e personalità diverse. Io li ho inventati tutti, ma sono comuni nella vita reale.

Non posso esimermi dal chiederti della denuncia sociale con cui hai dato voce alla terra flegrea che ti appartiene…

Come ho spesso dichiarato in altre interviste, in Donna con due ombre, esclusi i personaggi principali, i luoghi che descrivo sono tutti reali. 

Tutto si muove tra Napoli e a Bacoli, cuore dei Campi Flegrei.

Ma la terra flegrea è anche il luogo dove io sono nata, in cui tutt’ora vivo e, come la protagonista, nutro un legame molto intenso. 

Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo c’era innanzitutto il desiderio di creare per dare corpo al personaggio, ma via via è subentrata anche la necessità di evidenziare un disagio intimo che molti, come me, vivono ogni giorno perché spettatori di realtà contrastanti, convivenze di bellezza e disarmonia.  Pertanto gli scenari sono i coprotagonisti e perciò la fisicità dei luoghi che descrivo è così com’è, senza alterazioni o menomazioni. Le contraddizioni della natura e quelle costruite dall’uomo, poche volte rispettoso e simmetrico, spesso abietto e speculatore, ci sono tutte.

Che ruolo ha, infine, secondo te, la società nel creare le maschere che poi per convenienza o per sopravvivenza finiamo per indossare?

Grazie, mi hai lanciato una domandina semplice, semplice. 

Oggi nella società dell’apparire le maschere le indossiamo volontariamente. Almeno questa è la nostra sensazione, forse perché confondiamo la libertà di scegliere con la varietà di modelli poliedrici che subiamo senza un’apparente costrizione.

Noto ogni giorno attraverso i social, o i media in generale, che siamo preda di meccanismi di rigetto ideati ad arte, più ci respingono più li rincorriamo, perché è dilagante il concetto che tutto deve essere alla portata di tutti.  Un meccanismo subdolo che ci forza a vestire ruoli sempre più performanti e quindi, sempre più da burattino. 

Comunque sia non sempre la maschera va vista nella sua accezione negativa perché spesso ci rappresenta.  La indossiamo per sentirci integrati o per non svelarci completamente.

A volte sono addirittura necessarie, utili a difendere quella intimità che non vogliamo condividere a tutti i costi. Più le strutture sociali e politiche ci inviano input e segnali di appartenenza quasi come diktat, più l’istinto insorge per conservare qualcosa di sé.

Poi ci sono quelle di comodo o di difesa, come accade alla mia protagonista che ne indossa una per diciassette anni, ma poi fa di tutto per distruggerla. Perché le maschere dopo essere state indispensabili hanno una scadenza e risultano incompatibili con l’esistenza che volge alla stabilità, alla ricerca di un equilibrio.