... Un’epoca d’oro, non solo per la sperimentazione televisiva, ma anche per il linguaggio. Fra un teleromanzo e l’altro vi era una scrittura, una regia, un tipo di recitazione assai differenti, quantunque a prevalere fosse sempre la componente teatrale. Allora gli attori erano davvero dei mostri di bravura, talvolta (più raramente di quanto si possa pensare) tendevano all’artefatto, più spesso offrivano al pubblico personaggi credibili a cui era facile affezionarsi (vedi i casi esemplari di Gino Cervi – Maigret e Alberto Lupo ne “La cittadella”). Anche le storie avevano una freschezza, una verosimiglianza, una brillantezza difficili oggi da eguagliare con i format d’importazione. Vi fu un periodo soprattutto, nei primi anni ‘70, che gli autori degli “originali televisivi” (come allora si chiamavano i soggetti non derivati da romanzi famosi) virarono buona parte della loro produzione verso il giallo e il mistery. Ad aprire la fortunata galleria fu l’ormai mitico Il segno del Comando(oggi disponibile in un cofanetto di 2 dvd al costo di 18 euro), un soggetto di Giuseppe D’Agata e Flaminio Bollini, con la collaborazione di Dante Guardamagna e Lucio Mandarà, e che divenne più tardi un romanzo scritto dal solo D’Agata (pubblicato nel 1994 da Newton & Compton). Protagonisti nomi del calibro di Ugo Pagliai, Carla Gravina, Massimo Girotti, Rossella Falk, Andrea Checchi, Franco Volpi, tutti di comprovata esperienza teatrale e cinematografica (Girotti e Checchi in particolare furono dei divi negli anni ‘40-‘50). La regia era di Daniele D’Anza. Per Pagliai lo sceneggiato rappresentò il trampolino che lo lanciò come protagonista in altre produzioni dello stesso genere, la Gravina fece qui il suo esordio in qualità di fantasma per approdare al cinema tre anni dopo nel ruolo della posseduta (“L’Anticristo”, 1974). Lo sceneggiato andò in onda le domeniche tra il 16 maggio e il 13 giugno 1971. Cinque puntate di circa un’ora, godibilissime, in cui i momenti di tensione hanno una loro sapiente calibratura. Il modello è quello di “Belfagor”, la serie francese del 1965 che fece sfaceli un po’ in tutta Europa. Il successo de “Il segno del comando” indusse la Rai a progettare delle storie che fondassero nella suspense il loro tema dominante, nacquero così il folgorante “Ritratto di donna velata” con una giovane Daria Nicolodi, “L’amaro caso della baronessa di Carini”, “Il fauno di marmo”, il fanta-thriller “A come Andromeda”. Molti di questi titoli non sono stati ancora riversati in dvd, per cui al momento non possiamo parlarne se non con un vago senso del ricordo, per quanto riguarda “Il segno del comando”, invece, una recensione è d’obbligo, e non può essere che positiva. La trama è avvincente e la miscela di spy-story, racconto gotico ed esoterico funziona abbastanza bene (almeno fino al finale che pare in realtà un po’ irrisolto). Interessante il contributo culturale e didascalico che è un segno evidente della componente educativa della nostra vecchia tv: la storia ruota attorno ad un segreto nascosto nei diari di Lord Byron e negli spartiti di Baldassarre Vitali, buoni motivi, questi, per dissertare sulla vita del poeta inglese e sulla musica del compositore settecentesco, portando a spasso lo spettatore tra vecchi monasteri e antiche residenze nobiliari di una Roma crepuscolare e barocca. Grande televisione, quindi, capace di avvincere nonostante i tempi dilatati di allora, nonostante il bianco e nero, nonostante la relativa acerbezza del mezzo (ricordiamo che l’avvento della tv in Italia è del 1954), e nonostante la dicotomia formale tra scene in interno (girate con la telecamera, in presa diretta) e quelle in esterno (in pellicola, doppiate). La qualità del master servito al riversamento su digitale non è sempre eccezionale, specie nelle scene in pellicola. Il prodotto televisivo (si sa) non è costruito per essere rimandato ai posteri. Assioma, questo, in evidente contrasto con la distribuzione dei dvd, il cui successo nelle vendite pare in crescita costante. L’effetto nostalgia non esclude il rischio che il prodotto sia di qualità, ma in questo caso lo è. Indimenticabile la canzone “Cento campane” che fa da colonna sonora e che è diventata un classico del repertorio romanesco. Un’ottima occasione quindi per ripescare un po’ nei ricordi, ma anche per capire l’involuzione/evoluzione del mezzo, scoprire o riscoprire quanto eravamo bravi a raccontare storie popolari, e quanto anche in questo campo ci siamo col tempo – a mio parere – intellettualizzati e inariditi.