Tra il 1969 e il 1971 comparvero alla televisione una serie di sceneggiati su Nero Wolfe interpretati magistralmente da Tino Buazzelli. Fu un trionfo. Me lo ricordo bene perché erano gli anni della contestazione studentesca per cui di giorno mi ritrovavo a blaterare con i “compagni” sciocchi slogan del tipo “Tutto e subito” e la sera, invece di studiare come combattere l’Autorità con la A maiuscola, me ne stavo ignominiosamente rincattucciato sulla poltrona a godermi le esilaranti avventure nate dalla penna di Rex Stout. Una delle tante contraddizioni della beata gioventù (almeno della mia). Già l’autore mi restava simpatico. Nella vita, prima di giungere al successo, si era dato da fare. Aveva fatto mille mestieri per tirare avanti: da contabile a venditore di souvenir indiani, da guida turistica a stalliere, da venditore di libri a direttore (perfino!) di albergo. Lo avevo anche visto in una fotografia (dove?) e mi era parso alto, dall’aspetto agile e con la barba lunga. Tutto l’opposto della sua creatura. In quegli sceneggiati che davvero fecero epoca c’erano altri attori di gran pregio: Paolo Ferrari ad impersonare Archie Goodwin, Pupo de Luca che rappresentava il cuoco e maggiordomo belga Fritz Brenner e Renzo Palmer nelle vesti dell’ispettore Fergus Cramer. Un bel quartetto! Stout era stato astuto. Perfidamente astuto nella costruzione dei suoi personaggi principali. Nero Wolfe mostruosamente grasso e pigro, Archie Goodwin agile e scattante. L’uno fermo, inchiodato alla poltrona, l’altro in eterno movimento. Due piccioni con una fava: il giallo classico all’inglese coniugato con “l’hard boiled” americana. Il tutto servito su un piatto d’argento dove erano bene amalgamate la passione per le orchidee, per la buona cucina, per le raffinate conversazioni e la diffidenza verso il gentil sesso. Un vero e proprio capolavoro di alchimia “giallistica”.
Già, la buona cucina. E la buona tavola. Un elemento di successo di molti romanzi polizieschi a incominciare da Nero Wolfe e mi ricordo che proprio nel periodo in cui andava in onda lo sceneggiato uscirono alcuni libri sulle sue (e quelle di Fritz) famose ricette che fecero il giro anche di noti ristoranti. Rex Stout dimostrò, tra l’altro, di avere una sorprendente conoscenza di alcune abitudini alimentari del nostro paese. Tralasciando il grande Vasquez Montalbàn e il suo Pepe Carvalho ed anche il mitico Maigret di cui noi tutti conosciamo la loro sapiente (soprattutto da parte di Carvalho) cultura culinaria, ancora oggi i piatti più o meno raffinati fanno da contorno, è proprio il caso di dirlo, ai libri di più alta tiratura del nostro tempo. Basta citare L’albero dei giannizzeri di Jason Goodwin della Einaudi Stile Libero 2006 il cui protagonista, l’eunuco Yashim Togalu, di cui ho già parlato in un precedente articolo, dimostra una notevole conoscenza della cucina turca. E non è da meno l’ispettore capo Chen Cao della polizia di Shanghai ( da trattare in un prossimo intervento) in “Quando il rosso è nero” di Qiu Xialong, pubblicato dalla Marsilio sempre in questo anno, per quanto riguarda i manicaretti del suo paese tra i quali figurano perfino i nostri spaghetti. Per avere successo occorre saper scrivere e saper…mangiare!
Lord Wimsey mi è ritornato in mente di recente dopo una delle mie abituali scorrerie nelle librerie di Siena. Colpito dalla copertina accattivante (maledette copertine!) di Lord Wimsey e il mistero del Bellona Club di Dorothy L. Sayers pubblicato dalla Donzelli editore nel 2006 non ho potuto fare a meno di portarmela a casa. Rinfrescando così la memoria su questo geniale personaggio.
La Sayers, che è stata donna di profondi studi e di grande cultura- ha perfino tradotto in inglese quasi tutta la “Divina commedia”- porta nel romanzo poliziesco quella abilità letteraria che le era quasi connaturata. Nel 1923 scrive “Peter Wimsey e il cadavere sconosciuto” capostipite di una lunga, lunghissima serie di romanzi e racconti polizieschi che hanno per protagonista il nostro giovane bellimbusto. Notizie più particolari sulla sua vita le abbiamo dallo zio Paul Austin Delagardie, richiesto dalla stessa Sayers “di riempire alcune lacune e correggere alcuni errori trascurabili nel suo resoconto sulla carriera di mio nipote Peter” come trascrivo dal libro citato. Si sa che nasce nel 1890 e che da piccolo è “esile e pallido, molto inquieto e birichino, sempre troppo sveglio per la sua età”. Ha un coraggio “diabolico” e spesso soffre di incubi. A diciassette anni gli viene affidato e mandato a studiare a Parigi e poi a Oxford. Si innamora di una ragazzetta, parte per la guerra, salta in aria per lo scoppio di una granata e al suo ritorno in patria se la ritrova sposata con un altro. Nel 1921 c’è lo scandalo degli smeraldi di Attembury. Peter depone in qualità di testimone d’accusa e da qui incomincia il suo nuovo passatempo di investigatore. In seguito riesce a tirar fuori da un bel vespaio suo fratello Denver accusato di omicidio dalla Camera dei Lord. Infine si invaghisce della ragazza “che ha discolpato dall’accusa di aver avvelenato l’amante”. Un aristocratico che vanta illustri discendenti nobiliari, raffinatissimo, snob come quasi tutti i nobili e i raffinati, colleziona incunaboli e libri rari (dei quali la Sayers se ne intende, eccome), esperto cavallerizzo, adora la musica, la storia, ma soprattutto la criminologia. Porta un monocolo, in realtà una lente molto potente, un classico bastone da passeggio un po’ particolare, perché dentro contiene una lama di spada e il pomo una bussola. Tiene sempre con sé una scatola portafiammiferi che altro non è se non una pila. Il suo stemma di famiglia, poi, è tutto un programma. Scudo in campo nero con tre topi che corrono color argento sormontato da un gatto rampante con il motto “A mio capriccio”.
Parlando di Lord Wimsey non può non venire alla mente un altro celebre aristocratico nato, questa volta, dalla penna di S.S. Van Dine: Philo Vance.
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