Quant’era bello potersi riposare di domenica..

E Piero Lessona non faceva eccezione.

Piero Lessona era un Commissario di Pubblica Sicurezza,apprezzato da tutti,sottoposti e superiori,per il suo acume e sangue freddo che gli avevano permesso di risolvere parecchi casi intricati.Era un metodico.Tutto era pianificato: orari di alzata mattutina, di lavoro, di svago, di riposo notturno.

Era solo, vedovo da quando l’adorata moglie lo aveva lasciato.Da allora si era rifugiato nella lettura di buoni libri e nella musica classica, di cui possedeva una collezione di circa 1500 dischi, parecchi rari.I suoi interessi spaziavano in tutto lo scibile.

Era alto un metro e settanta circa, occhi marroni,e un paio di baffetti da ufficiale, molto ben curati.E nonostante facesse palestra, aveva qualche chilo in sovrappeso.Anche perché il suo secondo amore era la cucina.

Dei suoi cinquantadue anni, venticinque li aveva passati nella Polizia, guadagnandosi riconoscimenti sul campo, che gli avevano procurato la stima di parecchi.Attualmente era in procinto di diventare Commissario Capo, dirigendo

la Squadra Omicidi già da due lustri. Alle sue strette dipendenze era il Maresciallo Achille Ottone, Achille di nome, Ottone di cognome.Questi era il contrario del suo superiore, febbrile e iperdinamico, tanto che Lessona più di una volta lo aveva mandato a quel paese,per avergli rovinato il riposo dedicato alla lettura e all’ascolto di qualche bel disco.Ma più che un sottoposto era divenuto un amico.

Era il 13 Dicembre del 1963 e a Piacenza stava nevicando.Quella domenica pomeriggio il Dott. Lessona, dopo aver gustato delle ottime uova di quaglia tartufate accompagnate da Torta al formaggio e dopo aver bevuto dell’eccellente Sangue di Giuda,che il suo maresciallo gli aveva dato, stava leggendo,dall’originale tedesco, “Gli Inni alla Notte” di Novalis,mentre un vecchio disco diffondeva nell’etere del suo salotto la meravigliosa musica di “Frauenliebe und Leben” di Schumann nell’interpetazione di Lotte Lehman e di Bruno Walter al pianoforte,assieme a mille schioppettii e fruscii.Il disco invero apparteneva a suo padre,Giuseppe Lessona,che Piero aveva ascoltato decine di volte,perché ognuna di esse pareva che risentisse suo padre canticchiargliela quando lui era bambino.

Era così assorto nei suoi ricordi, che uno squillo insistente del telefono lo risvegliò.Presa la decisione di rispondere,una voce che nulla aveva di buono,dall’altro capo del filo gli disse: Capo, deve venire subito al Castello del Conte Ardigò.

-Ma che sei impazzito–rispose Lessona–non vedi che oggi è Domenica? Mandaci Sandonaci, lui deve fare esperienza!

-Scusate se insisto,ma è stato il Questore in persona a insistere che vi andiate di persona, tanto più che lui è sul posto.Sapete, si tratta del Conte Ardigò di Fossaimbruna:è morto.

Il Conte Ardigò di Fossaimbruna,era(o meglio era stato) uno dei pochi in quella provincia tra i possidenti a mantenersi defilato quando Mussolini era salito al potere e in quella posizione defilata si era mantenuto anche durante la guerra, aiutando a mettere in salvo prima partigiani e poi repubblichini e guadagnandosi odio e riconoscenza da entrambi gli schieramenti.Ora era morto.A chi sarebbe andato l’intero patrimonio? Lessona prese la scalcagnata Bianchina e dopo una buona mezzora, arrivò al maniero.

Ad aspettarlo era il Maresciallo Ottone.

-Capo,il Questore la sta aspettando.E’ nella stanza.Vede quella luce?E’ quella la biblioteca.  La finestra che Ottone gli aveva indicato era in realtà una porta finestra che dava su una veranda comunicante per mezzo di tre gradini col giardino, ora coperto di una distesa uniforme di bianca neve:aveva infatti nevicato sino a tre ore prima.

Lessona, seguì il suo maresciallo.Entrando per il portone dai pesanti battenti di quercia e ferro, sprovvisto di serratura e che si apriva mediante un marchingegno interno,si apriva un enorme atrio, gelido,appena riscaldato da vari bracieri disposti lungo le pareti.Sulle pareti,troneggiavano i ritratti degli avi,capitani di Ventura,generali, vescovi,conti e vassalli degli Imperatori Federico I e II,questi ultimi raffigurati con bassorilievi. Si aprivano a pianterreno due grandi stanze:una a destra,la sala da pranzo dove il Conte consumava i suoi frugali,si fa per dire,pasti (pesava infatti almeno centoquaranta chili) da solo o assieme ai suoi ospiti,da cui si accedeva ad una cucina comunicante con la cantina;e una a sinistra, appunto

la Biblioteca.Vi entrò.