Proprio così. Un piccolo giallo nel giallo. Quello che sto per presentarvi e quello mio personale. Che cosa c’entro io? C’entro, eccome! Dunque…Non ve la faccio lunga. State a sentire. Ho acquistato Il pappagallo bianco di Mignon Good Eberhart pubblicato dalla Polillo editore. Sì, quello con le copertina rossa. Poi me ne sono andato a casa e mi sono messo a leggerlo armato di evidenziatore come faccio sempre. Come? Lo sciupo? Ma via, non esiste. Sottolineare le parti che interessano e suscitano interrogativi non è sciupare i libri. Che vanno letti e riletti, girati e rigirati. Altrimenti servono solo a fare bella figura come specchietti per le allodole. Dunque, dicevo, me ne stavo spaparanzato sul divano a leggere il suddetto quando mi accorgo di averlo già letto. Sì, proprio così. Da che cosa? Dal fatto che quasi inavvertitamente riuscivo a presagire gli avvenimenti che si avvicendavano l’uno dietro l’altro. Che fossi diventato un indovino dei gialli? No, l’avevo letto. Ma quando? Ma dove? E, soprattutto, perché non mi ero ricordato del titolo? Un titolo breve e conciso come questo deve per forza rimanere impresso nella memoria. Un articolo, un nome e un aggettivo. E poi il pappagallo me lo sarei ricordato. Un mistero, come quello del giallo che già mi era ritornato in mente. Bastava andare in fondo al libro. Ci sono andato e ho trovato anche la spiegazione al mio dei misteri. Ve la dirò dopo avere scritto due righe su questo romanzo, così avete tutto il tempo per pensare ad una semplice, logica, possibile soluzione.

Mignon Good nasce nel 1899 a Lincoln nel Nebraska. E’ soprannominata

la Agatha Christie americana (aridagliela! Nel senso che le Agathe Christie si trovano proprio dappertutto) per la vastità della sua produzione. D’altra parte dopo avere fatto un po’ di giornalismo si dedica completamente a scrivere gialli e dunque il tempo non le è mancato. Praticamente si ritira con il marito, l’ingegnere Alan Eberhart, in una piccola villa in riva al mare. E giù a picchiettar tasti sulla macchina da scrivere. Il primo giallo è “La stanza numero 18” che esce nel 1929 e l’anno successivo vince lo Scotland Yard Prize con “L’elefante di giada”. Nel 1977 viene eletta presidente dell’associazione del Mystery Writers of America. Muore nel 1996. Un pezzo grosso della storia del giallo. Il suo personaggio più

popolare è senz’altro Sarah Keate una infermiera cicciotella dai capelli rossi che ficca il naso (a becco d’aquila) dappertutto. Sua “spalla” il giovane ispettore Lance O’ Leary. Dico spalla perché in definitiva la vera protagonista è proprio questa scatenata infermiera. I giudizi sulla Ebherart non sono unanimi. C’è chi la considera una specie di genio e chi, invece, la critica senza mezzi termini. “A giudizio di chi scrive, i cultori di puzzles veramente ingegnosi possono anche esimersi dalla lettura delle sue storie” dichiara Carlo Oliva nel suo “Storia sociale del giallo” Todaro editore 2003. E  la scrittrice Maria Santini aggiunge che ella “godette di una grande e immeritata fama” perché in definitiva “si è limitata a scrivere cento volte lo stesso romanzo, quello imperniato sulla Ragazza” che ha sempre (o quasi) un Fidanzato ed una Rivale.  Gian Franco Orsi e Lia Volpatti sono più teneri e almeno le riconoscono che “è sempre stata maestra nelle ricostruzioni degli ambienti…”. (Cfr.”C’era una volta il giallo II-L’età del piombo”, Alacran 2006).

Ad essere sinceri Il pappagallo bianco sembra andare maggiormente nella direzione di Carlo Oliva (per gli ambienti sono d’accordo con Orsi e Volpatti). Nel senso che trattasi di uno dei più pazzeschi e incasinati tourbillon di fatti e colpi di scena che abbia

mai letto. Il tutto organizzato e diretto in un albergo della costa francese dove si ferma, per aspettare un amico, l’ingegnere americano James Sundean. I personaggi sono praticamente il suddetto americano (di lui si sa qualcosa dalle parole della signora Lovschiem, cioè che è alto, con l’aria decisa, capelli bruni, una bella testa, occhi grigioazzurri, il viso costruito su diversi piani: le sopracciglia, gli occhi e la bocca su un certo livello, e il naso e il mento su un altro) i due proprietari, un’anziana signora dall’aria nobile, un prete dalla barba rossa, una deliziosa ragazza che aspetta l’arrivo del fratello, un avvocato, un cameriere e una cameriera, la polizia di Parigi. E il vento. Ma sì, proprio il vento che soffia sempre in ogni ora del giorno, che fa sbattere le porte, aprire e chiudere le imposte delle finestre. Lo dice lo stesso Sundean che parla in prima persona di questa matassa ingarbugliata della quale già conosce la fine “Durante tutto quel periodo il vento si attenuava solo saltuariamente, e in qualche modo sembrava parte integrante e consapevole di quella folle vicenda”. Il classico clima gotico fatto apposta per creare un po’ di tensione nel lettore. E il pappagallo. Già me ne ero dimenticato. Il pappagallo che appare in tutte le situazioni più o meno particolari e che ad un certo punto diventa lui stesso un personaggio chiave. D’altra parte lo dichiara espressamente l’incipit del libro“Tutto ebbe inizio, così come ebbe fine, con il pappagallo bianco”.

 Come in un giallo che si rispetti c’è un morto. Un momento. Non la facciamo facile. Intanto non si sa chi sia. E nemmeno come sia stato ucciso. Con un colpo di pistola? Oppure con un colpo ben assestato di coltello proprio nel punto in cui è trapassato il proiettile? O addirittura con un veleno?  Poi c’è un altro morto, poi un altro ancora. Ci sono rumori e odori strani, sospiri, passaggi segreti e così via.  Un’atmosfera da castello medioevale trasportata in un moderno albergo francese. Insomma c’è un bel po’ di roba da digerire e qualche boccone, purtroppo, resta sullo stomaco. Niente da dire, invece, sulla prosa della Eberhart. Fluida, sicura, scorrevole. Spesso ironica: “Il fagotto di scialli era  la signora Byng, e il cavolo si rivelò una grande cuffia da notte di pizzo, tirata sopra i capelli, che aveva assunto un aspetto curiosamente bitorzoluto e le scendeva fino alle folte sopracciglia nere”. Alla fine il mistero viene scoperto e l’intreccio tende a ricomporsi. Anche se abbastanza sfilacciato.

Nelle due ultime pagine del libro dedicate all’autrice c’è anche la spiegazione del mio piccolo mistero. Ci siete arrivati anche voi? Bene, se non ci siete arrivati, eccola. “The White Cockatoo” era stato pubblicato originariamente in italiano con il titolo “L’albergo dei quattro venti” ed io l’avevo letto proprio con questo titolo. Impossibile ricordarsi del pappagallo!

Sito dell’autore www.libridiscacchi.135.it