-Ma guarda, guarda chi si vede. Ma che bella fanciulla! Ma come fai tu? L’altro giorno quella splendida rossa, oggi quest’altra. Ma che gli fai tu alle donne? -Lino, ma statti zitto! Ma devi sempre rompermi le uova nel paniere?

-Sai io...

-Sì, sì, tu.

E allora vidi avvicinarsi una splendida amazzone che lo prese per il braccio.

-Che stai facendo, Lino? Chi è questo signore?

-E’ un mio amico, Enrico Angelini.

-Discende dal cielo?

-Magari! No, solo di natali pugliesi. E lei, divina Uri, da quale paradiso discende?

-Dal bagno

-Già il bagno. Qualcuno dovrebbe fare uno studio antropologico sul perché le donne stiano sempre al bagno, quando le si cercano.

-Mi stavo truccando.

-O divina fanciulla, non stavo mica pensando che avessi la vescica facile! A proposito con chi sto conversando?

-Vuoi il mio numero di cellulare? Mi chiamo Maria. Sono un’amica di Lino. E tu che fai bel Sigfrido: hai finito di uccidere il drago Fafnir ?

-Che cultura! Non mi ricordo bene – feci strizzando l’occhio: la spada con cui l’uccise, si chiamava Balmung?

-Nel ciclo dei Nibelunghi è chiamata così. In realtà nei primi miti nordici veniva chiamata Gramr.

La guardai con rispetto. Come lo disse mi fece rabbrividire. Sentii che stava avvenendo da qualche parte in me una modificazione fisiologica.

Bella, straordinariamente bella, disinibita quanto bastava, e pure colta. Ma da quale paradiso era discesa? Eppure non l’avevo mai vista. Lo sguardo mi colpì. Aveva qualcosa...qualcosa che ti colpisce.

-Se vuoi uscire con me, il mio numero è questo.

Porca miseria! Mi stupiva sempre la facilità con cui rimediassi numeri di cellulare: o ero io che emanavo un certo fascino o incontravo con straordinaria facilità ragazze “estremamente disponibili”.

-Lino, ma chi è quella?

-Interessato, eh ? Una tizia che ho incontrato ad un party.

-Ma che fa?

-Scrive. Stava con un consulente anni fa. Ora invece è single...mi capisci.

Capivo, capivo. Lo dicevo mentre la guardavo allontanarsi, una splendida mora, dalle magnifiche gambe, e dai magnifici capelli, raccolti in una acconciatura sbarazzina, quasi punk da una matita. Si vedeva proprio che era una scrittrice!

-Signori, l’aperitivo è servito. Prego, accomodatevi. I tavoli sono imbanditi.

L’attacco a Fort Apache, è quello che seguì: un’orda di cavallette con fattezze umane che si buttò a pesce morto sui tavoli e cominciò a spazzolarli con perizia e velocità sovrumane: dove passavano non restava più un filo d’erba, pardon un panzerottino nel piatto.

Era proprio vero che più si sembra sfondati in ricchezza, più ci si comporta da vastasi.

Un miagolio, distolse la mia attenzione: un gatto faceva le fusa in un angolo. Un bel gatto persiano.

Alan Ford stava mangiando con una velocità da far spavento. E con lui parecchi altri. E molto cadeva per terra: fazzolettini, bicchieri di plastica usati, sandwiches sbocconcellati, rimasugli di riso non trangugiato. Un panzerottino schiacciato o quasi provocò la caduta di una nobildonna che vi scivolò sopra, e mentre tutti ci affannavamo in suo soccorso, il gatto che faceva le fusa, improvvisamente si mise all’erta, fissò qualcosa che non capii e subito scattò...

Neanche un minuto dopo, ma che dico...secondi, e un rantolo ci fece voltare: Fordarelli portava le mani alla gola, il volto paonazzo, di chi non riesca a respirare perché qualcosa gli sia andato di traverso.

-Sempre il porco fa. Mangiasse con più signorilità, non farebbe ste figure. Due mesi fa, per non soffocare da un piccolo panino al salame, ha dovuto infilarsi due dita in gola e vomitare. Che schifo!, commentò una tale che doveva conoscerlo bene, conciata come solo a Carnevale ci si veste: un pagliaccetto di colore lilla, calze a rete rosse e stivaletti bianchi.

Ma quello, si vede che aveva mangiato più di quanto sospettassimo, perché ad un tratto perse l’equilibrio, stramazzando su un tavolo e portandosi a terra tovaglia, piatti, bicchieri e il gateau di patate.

-Mario, Mario, stai bene? Mario, Mario, Mariuccio, che fai ? No, aiutooo.

Aveva gli occhi fissi, che non si muovevano, e il colorito cianotico. Sentii il polso: niente.

-Un medico, chiamate un medico. Presto!

Ne arrivò uno, quello dell’albergo.

Lo visitò.

-Cos’ha mangiato?

-Di tutto.

-Beh, c’è qualcosa che gli ha fatto male.

-Quanto?

-Parecchio: è morto.

Scena madre: la tizia singhiozzava (non si sa se per lui morto stecchito o se per lei ora che mancava il gonzo che le aveva assicurato sino ad allora di vivere alle spalle: si sa che era tirchio, ed anche piuttosto ricco, con tutti i soldi che aveva fregato agli altri).

-Morto? Ma...è sicuro?

-Sicuro? In mancanza di antidoto nessuno avrebbe scampo.

-Come...antidoto. Ma l’antidoto si da a chi è avvelenato.

-Complimenti! Medico?

-No, giallista. Del resto come tutti quanti, qui.