II. La nascita della coralità

Sherlock Holmes, Philo Vance, Miss Marple, Hercule Poirot, Nero Wolfe, il commissario Maigret, Philip Marlowe… un elenco che potrebbe essere incredibilmente lungo, soprattutto se lasciamo il cosiddetto periodo d’oro del giallo classico e arriviamo fino ai giorni nostri. Una squadra di investigatori, privati e non, appassionati o facenti parte delle forze dell’ordine, una squadra numerosissima, attraverso la quale potremmo tracciare quasi tutta la storia del genere.Quasi tutta, dico, perché in effetti qualcosa manca. Ho usato intenzionalmente la parola “squadra”, per poter introdurre un concetto che in qualche misura si allontana da alcuni degli schemi in cui sono calati i personaggi dianzi citati, quello della coralità, per l’appunto.

Ritornando ai nomi dei celebri detective che ho snocciolato, possiamo ben dire che siano una squadra, un gruppo che effettivamente messo insieme rappresenta gran parte del giallo classico più noto al grande pubblico, ma non possiamo dire altrettanto relativamente al loro metodo d’investigazione. Individui eccentrici, raffinati oltre la normale concezione del termine, stravaganti, geniali, con eccessi maniacali a volte incontrollabili… personaggi così caratterizzati da accentrare su di sé l’intera storia, divenendo perno dell’investigazione stessa.

Gli elementi di questo eterogeneo gruppo dalle geniali capacità deduttive, lavorano da soli, al massimo aiutati da un compagno più o meno decisivo alla risoluzione del caso (il primo che mi viene in mente è il brillante Archie Goodwin), ma questo non ci permette di poter affermare che la soluzione dell’enigma sia giunta attraverso un lavoro di gruppo.

È proprio questo l’elemento caratterizzante delle storie con questi protagonisti: la genialità del singolo, l’attenzione al più piccolo dettaglio. La grande bravura di autori quali la Agata Christie, Georges Simenon, Rex Stout, S. S. Van Dine consiste proprio nel saper gestire una storia complessa attraverso le capacità particolari di personaggi decisamente al di fuori della norma. E per fare questo anche l’autore deve in qualche misura essere geniale, pianificare tutto con tanta cura da fare invidia al meccanismo di un preciso orologio svizzero.

Questo tipo giallo però a volte risulta artificioso, come se il delitto fosse un piatto servito al lettore affamato, il quale però se ne vuole stare comodo a casa piuttosto che prepararsi e andare al ristorante. I delitti vengono estrapolati dal contesto che li genera e proiettati in luoghi e ambienti diversi. Non la strada, buia e pericolosa, ma una villa ottocentesca durante un ballo. Non l’appartamento sporco di un quartiere residenziale, ma una sontuosa nave da crociera. Il lettore ama il gioco dell’investigazione, ma preferisce immaginare l’orrore della morte lontano da sé. Impossibile pensare che proprio in questo momento, nell’appartamento accanto al mio, una donna in preda alla gelosia possa uccidere con venti coltellate il marito adultero.

Molto più semplice e divertente immergersi in omicidi artificiosi con veleni o meccanismi complessi… così facendo si trova lo stesso piacere nella lettura, si può sfidare l’autore nella scoperta dell’assassino e allo stesso tempo si riesce ad evadere dalla vita di tutti i giorni.

Non furono pochi gli autori che cominciarono a sentire la necessità di portare le loro storie in situazioni più reali e meno artificiose. Tra i primi a esprimere questo desiderio apertamente c’è Raymond Chandler, inventore dell’investigatore duro e onesto Philip Marlowe, il quale si riallaccia alla tradizione iniziata da Dashiell Hammett (iniziatore dell’hard boiled, molto in voga oggi), reclamando un passo in direzione del realismo.

Prendendo spunto da La semplice arte del delitto (Feltrinelli, 1989), riportiamo un suo pensiero:

Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per un motivo, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori; e con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali.
La letteratura gialla sta cambiando, è innegabile. Non cambiano i meccanismi o le famose regole di Van Dine, non completamente almeno, ma il modo di affrontare il delitto, la collocazione dello stesso. E, per quanto riguarda il nostro discorso, il processo d’investigazione.

A questo punto non possiamo più giraci attorno. Dobbiamo fissare una data, dare i punti di riferimento di questo cambiamento che si ripercuoterà sia positivamente che non, fino al presente.

L’anno è il 1956. L’autore è Ed McBain e il libro L’assassino ha lasciato la firma (titolo originale: Cop hater).

Sono passati oltre 50 anni, ma questo romanzo ha segnato l’inizio di un qualcosa che prima nel giallo classico, o più in generale nel poliziesco, non esisteva: l’investigazione di gruppo, quella benedetta coralità che abbiamo preannunciato iniziando queste pagine.

All’inizio di questo paragrafo ho fatto un elenco di investigatori. Adesso eccone un altro: Steve Carella, Meyer Meyer, Bert Kling, Hall Willis, Arthur Brown, tenente Byrnes, Richard Genero, Cotton Hawes, Alex Delgado, Andie Parker, Carl Kapek, Bon O’Brien, Ollie Weeks…

Questa, a tutti gli effetti, è una squadra. Nel senso che gli elementi di questo elenco lavorano assieme, non sempre, non con la stessa bravura e responsabilità, ma sono parte di un gruppo. Nessun genio, nessuna capacità particolare. Sono i detective dell’87° distretto. Un elemento sopra l’altro, in un gioco di pazienza e intuizioni molto reali, molto vicine al lettore stesso.

Per dare spazio a un ‘altra voce, riportiamo un passo dell’introduzione di Lia Volpatti da una vecchia edizione CDE su licenza Mondadori:

Nessuno è protagonista. Nessuno è eroe. Nessuno è infallibile. Nessuno è Re Artù. Nessuno Lancillotto. E la grande forza, nonché il grande fascino dei romanzi di McBain sta proprio in questo: nell’aver saputo creare un nucleo, una famiglia, un collettivo che opera sincronicamente, come un sol uomo.
 Con il romanzo L’assassino ha lasciato la firma Ed McBain ha iniziato un ciclo lunghissimo e con gli anni ha aggiunto un qualcosa in più al poliziesco (ne parleremo a breve), portando il Giallo su un piano diverso. Sempre rigoroso e preciso, ma con un qualcosa in più.

Prima di passare a parlare di questo “qualcosa in più”, è doveroso riportare i primi paragrafi del romanzo. Non perché siano particolari, semplicemente perché sono l’inizio di tutto questo cambiamento. Un punto fermo nella storia del giallo sul quale non possiamo sorvolare: